di Giulia Tacchetti
SIENA. La riscrittura di Letizia Russo, la regia di Andrea Baracco, le scene ed i costumi di Marta Crisolini Malatesta, le luci di Simone De Angelis, le musiche di Giacomo Vezzani hanno reso vincente la sfida di concentrare le quattrocento pagine di Bulgakov in una rappresentazione teatrale scorrevole e godibile. Il romanzo, opera complessa sia da un punto di vista strutturale che stilistico, viene suddiviso dalla tradizione critica in tre linee narrative, ognuna delle quali contiene un preciso contenuto etico: il diavolo a Mosca negli anni Trenta, la vicenda del Maestro e Margherita, il Vangelo secondo Pilato. Bulgakov ha posto al centro del romanzo la Mosca che ben conosceva, quella degli anni Trenta, con tutte le sue cupe realtà, descrivendola con un sorriso distaccato ed ironico. Il solo modo per rompere il rigido sistema di regole e di soprusi è quello di fare intervenire il diavolo. Tutto salta per aria appena il diavolo ci mette lo zampino. Il vero protagonista dell’opera, anche se il suo ruolo appare secondario, è il Maestro, rinchiuso disperato in un manicomio, perché autore di un romanzo su Pilato, che suscita una reazione violenta da parte della rivista letteraria, che non lo pubblica. Il Maestro, accusato di falso ideologico, viene annientato e distrutto, come accadeva nella realtà a tanti scrittori sovietici degli anni Trenta, deportati e fucilati. Il romanzo di Pilato si presenta come un Vangelo apocrifo, una nuova versione della passione e morte di Jeshua Hanozri, Gesù di Nazareth; vuole negare il divino (martellante la campagna antireligiosa nei primi anni dell’era sovietica) e invece lo ripropone.
La collaborazione di Letizia Russo e Andrea Baracco, che alterna sapientemente il registro comico a quello drammatico, crea un’unica struttura, solida, ma anche flessibile nell’introdurre le storie intrecciate. La drammaturgia rispetta il testo, rendendolo fluido dall’inizio alla fine, senza mai un momento di cedimento. Questo anche per la presenza di un cast veramente professionale: l’eccezionale Michele Riondino (Woland), diavolo joker, claudicante, dalla bocca rossa e gli occhi cerchiati di nero, dalla voce magnetica, che in taluni momenti rimanda a Carmelo Bene; Francesco Bonomo (Maestro/Ponzio Pilato) preparato ed esperto; Federica Rossellini (Margherita) acuta nella sua freschezza; Alessandro Pezzali (aiutante di Satana) compunto, elegante, ma anche eccessivo; Oskar Winiarski, icona perfetta di Jeshua. Su tre pareti scure, adorne di geroglifici, scritte “liberati dal maligno sono rimasti maligni”e disegni, all’improvviso si aprono e si chiudono strettissime porte, che rendono possibile i continui cambi di scena. Sembrano mura indistruttibili più che pareti, come a sottolineare che i personaggi sono chiusi in un mondo senza speranza e futuro. Il diavolo è portatore di luce e conoscenza (“Mia è la libertà, mia la rivolta”) e in uno dei monologhi finali difende la propria funzione positiva in mezzo agli uomini: “Come apparirebbe la terra, se ne sparissero le ombre? Le ombre provengono dagli uomini e dalle cose”. L’uomo non può vivere senza la sua ombra, che è segno della sua fisicità, ma al tempo stesso aspira alla luce, alla trasparenza. Bulgakov ci spinge ad andare oltre gli effimeri poteri terreni (soldi, carriera), alla ricerca di quella pace che Pilato ha atteso per duemila anni e il Maestro e Margherita ottengono dal diavolo grazie all’amore di Margherita. Piano piano viene scardinata l’ideologia dominante, portatrice di lutti, mostrandone inganni e contraddizioni. Le scene sottolineano questi momenti di alta drammaticità, come il telo rosso che copre il corpo del Cristo dopo la deposizione, alla fine del primo atto, e che rimanda immediatamente al pathos della deposizione di Michelangelo. Anche la musica con il suono martellante degli strumenti a percussione o il suono di un violino solitario accompagna questo scenario cupo, in cui si consuma la tormentata storia d’amore, l’irruzione a Mosca del diavolo, il processo al Messia da parte di un Pilato umano e dubbioso. Il caloroso applauso finale del pubblico non lascia dubbi sull’esito della rappresentazione.