di Gianni Basi
SIENA. Gli strumentisti che compongono il “Trio Altenberg” , che si esibiranno venerdi 6 febbraio alle ore 21 in Palazzo Chigi Saracini per il nono appuntamento chigiano della stagione di “Micat in Vertice”, hanno alle spalle una vera e propria gavetta internazionale. Prima infatti della loro unione in trio, avvenuta nel ’94 nel corso della “Settimana Mozart” di Salisburgo, hanno attraversato i continenti da solisti o con gruppi cameristici primeggiando in competizioni prestigiose e ricevendo borse di studio nelle migliori accademie. Un palmarès di assoluto rilievo che ha portato alla costituzione di un trio specializzato come pochi nell’esaltare il formidabile connubio pianoforte-violino-violoncello, chiave sonora fra le più efficaci nella struttura concertistica da camera. Quella, per intenderci, che permette a più note di assemblarsi con fluidità estrema e tali perciò da risultare facilmente accessibili all’ascolto. Ne escono suoni che più dolci non si può, che sembrano mettere tutti d’accordo come se da essi venisse fuori un unico chiaro linguaggio, pilotato in sordina dal grave del violoncello.
Sarà per questo che il Trio ha scelto di dedicare il suo nome alla figura di Peter Altenberg, poeta austriaco di fine ottocento, che definì la musica come “il solo mezzo per compenetrarsi del tutto in una lingua straniera” attribuendo questo merito alla volatilità dell’anima. Le diverse origini dei componenti della formazione (viennese d’acquisizione), confermano quanto la musica si presti al ruolo di traduttrice universale, e soprattutto dei sentimenti. Avete mai provato a suonare in gruppo e scambiarvi sguardi d’intesa coi compagni al salto di un accordo, all’impennata di un attacco? Piacere puro. Una delle poche situazioni in cui ogni cosa, per funzionare, deve essere frutto di cronometrici inserimenti all’unisono per consacrarsi assolutamente bella. Il solo austriaco dei tre è il pianista Claus Christian Schuster, gli altri sono l’uruguaiano Amiram Ganz al violino e il polacco Alexander Gebert al violoncello. Dal ’94 in poi, il Trio vanta successi in ogni sala da concerto d’Europa, Stati Uniti, Asia, ottenendo nel ’99 a Zwickau il Premio Robert Schumann e nel 2000 l’”Edison” ad Amsterdam. Tra le loro consuete attività anche la supervisione al Festival Brahms in Austria e i corsi di formazione giovanili all’Accademia di Musica di Pinerolo. Nel 2007, il Trio, che si divide fra le collaborazioni al Conservatorio di Vienna e al Musikverein, hanno incantato pubblico e critica nel corso della Gesellshaft der Musikfreunde eseguendo la produzione cameristica di Shostakovich e dei compositori russi del ‘900, sino poi all’acclamata tournée dello scorso anno suonando Beethoven e gli autori contemporanei. Di trionfo in trionfo, hanno appena cominciato con tappe in Finlandia e Austria una lunga serie di concerti che si protrarrà fino a maggio, e venerdi sera saranno a Siena per poi toccare Firenze, la Sicilia, il Canada, gli USA, la Germania e infine il ritorno tra gli stucchi del Musikverein. A Palazzo Chigi suoneranno arie romantiche, di quelle che una volta ascoltate vien voglia di sentirle ancora. Il primo assaggio è di Franz Joseph Haydn. Un “quasi sempre presente”, in questo “Micat in Vertice”, in virtù delle celebrazioni per il duecentenario dalla sua scomparsa. Considerato l’iniziatore dei trii e dei quartetti, il compositore austriaco scrisse sul finire del ‘700 il “Trio n. 35 in do maggiore Hob.XV n.21”, detto “Pastorale” (con “Hob.” che sta per Anthony von Hoboken, nella veste di suo catalogatore). Come nell’espressione delle tipiche forme barocco-romantiche, anche qui Haydn riveste il brano di delicata sensibilità e di limpidezza melodica. Una grazia esecutiva che, però, non disdegna qua e là soluzioni ardite e comunque nuove per quel tempo. Cosa che a questo proposito ci induce ad una piccola riflessione sulla nota polemica Ughi-Allevi delle settimane scorse. Ci sembra, in effetti, che Giovanni Allevi, il più giovane fra i nostri moderni compositori e pianisti, debba ancora crescere per proporre una musica che non risenta a volte smaccatamente di influenze passate. E, ciò, malgrado il velo di jazz di cui la farcisce dandole tocchi apparentemente nuovi. Uto Ughi fin qui ha ragione. Tuttavia una domanda si pone: chi, fra i grandi, può essere assolto dal non essersi richiamato ad altri? Beethoven stesso – che ascolteremo col raramente eseguito (per imprecisate e immotivate ostilità protrattesi per anni da parte di critici sicuramente sordi) “Trio in mi bemolle maggiore op.70 n.2” -, ammise di aver guardato eccome al suo immediato predecessore e persino maestro Haydn. E così via per mille altri autori. Dunque, se è ampiamente riconosciuta una sempiterna metamorfosi musicale in cui i suoni vivono e si rigenerano attraverso congiunzioni di anelli a catena, con esiti a volte migliori ed altre peggiori, perché non dare credito, o quantomeno del tempo, a chi tenta di cercare nuove strade seppure inciampando nelle vecchie? E’ da questi tentativi che sono nati, anche, i capolavori. Haydn e Beethoven – come decine e decine di musicisti – furono agli inizi considerati degli insolenti innovatori. E certo Uto Ughi lo sa bene. Come sa che i giovani vanno aiutati (lo ha sempre fatto lui per primo!) non scoraggiati sul nascere.
Ma torniamo a Beethoven. Il suo trio deriva da un altro, appena scritto prima, che ebbe invece grande fama. Era, quello, il 70 n.1, detto “Degli Spettri”, ricco di una insolita carica emotiva e fantastica che rapì per il suo effetto sorpresa. Nell’aria in esecuzione dagli “Altenberg”, invece, si ritrova il Beethoven più tradizionale, dalla melodia scorrevole, perfetta nel giro armonico, piacevole nel cantato subito orecchiabile, e solo a tratti, in qualche sfumatura, cedevole al richiamo bitonale del più intraprendente trio precedente. Sta di fatto che entrambi questi pezzi piacquero tantissimo alla contessa Marie von Ertódy, alla quale un galante Beethoven li dedicò.
Il concerto chigiano si concluderà poi con l’ultima delle grandi opere cameristiche con accompagnamento di pianoforte di Felix Mendelssohn-Bartholdy, il “Trio in do minore op.66 n. 2”. Una pagina da restarne affascinati per la sua bellezza leggera e semplice, per il suo ruotare attorno alla tonalità del do minore legando, nel dialogo virtuoso degli strumenti, un incipit di sonorità meditative alle soavi aperture finali. Bel saggio di abilità, per il “Trio Altenberg”, e una serata di musica decisamente radiosa per gli abituè di Palazzo Chigi.
Ma chi ama la delicatezza di violino piano e violoncello non deve farsi sfuggire questo piccolo squarcio sereno tra le impietose piogge di febbraio. E troverà i biglietti (dai 6 ai 20 euro, e ricordiamo che la Chigiana adotta prezzi davvero unici) al botteghino di Palazzo Chigi giovedì 5 dalle ore 16 alle 18,30, e venerdi 6 tra le 20 e le 21. Poi, solo gli “Altenberg”.
SIENA. Gli strumentisti che compongono il “Trio Altenberg” , che si esibiranno venerdi 6 febbraio alle ore 21 in Palazzo Chigi Saracini per il nono appuntamento chigiano della stagione di “Micat in Vertice”, hanno alle spalle una vera e propria gavetta internazionale. Prima infatti della loro unione in trio, avvenuta nel ’94 nel corso della “Settimana Mozart” di Salisburgo, hanno attraversato i continenti da solisti o con gruppi cameristici primeggiando in competizioni prestigiose e ricevendo borse di studio nelle migliori accademie. Un palmarès di assoluto rilievo che ha portato alla costituzione di un trio specializzato come pochi nell’esaltare il formidabile connubio pianoforte-violino-violoncello, chiave sonora fra le più efficaci nella struttura concertistica da camera. Quella, per intenderci, che permette a più note di assemblarsi con fluidità estrema e tali perciò da risultare facilmente accessibili all’ascolto. Ne escono suoni che più dolci non si può, che sembrano mettere tutti d’accordo come se da essi venisse fuori un unico chiaro linguaggio, pilotato in sordina dal grave del violoncello.
Sarà per questo che il Trio ha scelto di dedicare il suo nome alla figura di Peter Altenberg, poeta austriaco di fine ottocento, che definì la musica come “il solo mezzo per compenetrarsi del tutto in una lingua straniera” attribuendo questo merito alla volatilità dell’anima. Le diverse origini dei componenti della formazione (viennese d’acquisizione), confermano quanto la musica si presti al ruolo di traduttrice universale, e soprattutto dei sentimenti. Avete mai provato a suonare in gruppo e scambiarvi sguardi d’intesa coi compagni al salto di un accordo, all’impennata di un attacco? Piacere puro. Una delle poche situazioni in cui ogni cosa, per funzionare, deve essere frutto di cronometrici inserimenti all’unisono per consacrarsi assolutamente bella. Il solo austriaco dei tre è il pianista Claus Christian Schuster, gli altri sono l’uruguaiano Amiram Ganz al violino e il polacco Alexander Gebert al violoncello. Dal ’94 in poi, il Trio vanta successi in ogni sala da concerto d’Europa, Stati Uniti, Asia, ottenendo nel ’99 a Zwickau il Premio Robert Schumann e nel 2000 l’”Edison” ad Amsterdam. Tra le loro consuete attività anche la supervisione al Festival Brahms in Austria e i corsi di formazione giovanili all’Accademia di Musica di Pinerolo. Nel 2007, il Trio, che si divide fra le collaborazioni al Conservatorio di Vienna e al Musikverein, hanno incantato pubblico e critica nel corso della Gesellshaft der Musikfreunde eseguendo la produzione cameristica di Shostakovich e dei compositori russi del ‘900, sino poi all’acclamata tournée dello scorso anno suonando Beethoven e gli autori contemporanei. Di trionfo in trionfo, hanno appena cominciato con tappe in Finlandia e Austria una lunga serie di concerti che si protrarrà fino a maggio, e venerdi sera saranno a Siena per poi toccare Firenze, la Sicilia, il Canada, gli USA, la Germania e infine il ritorno tra gli stucchi del Musikverein. A Palazzo Chigi suoneranno arie romantiche, di quelle che una volta ascoltate vien voglia di sentirle ancora. Il primo assaggio è di Franz Joseph Haydn. Un “quasi sempre presente”, in questo “Micat in Vertice”, in virtù delle celebrazioni per il duecentenario dalla sua scomparsa. Considerato l’iniziatore dei trii e dei quartetti, il compositore austriaco scrisse sul finire del ‘700 il “Trio n. 35 in do maggiore Hob.XV n.21”, detto “Pastorale” (con “Hob.” che sta per Anthony von Hoboken, nella veste di suo catalogatore). Come nell’espressione delle tipiche forme barocco-romantiche, anche qui Haydn riveste il brano di delicata sensibilità e di limpidezza melodica. Una grazia esecutiva che, però, non disdegna qua e là soluzioni ardite e comunque nuove per quel tempo. Cosa che a questo proposito ci induce ad una piccola riflessione sulla nota polemica Ughi-Allevi delle settimane scorse. Ci sembra, in effetti, che Giovanni Allevi, il più giovane fra i nostri moderni compositori e pianisti, debba ancora crescere per proporre una musica che non risenta a volte smaccatamente di influenze passate. E, ciò, malgrado il velo di jazz di cui la farcisce dandole tocchi apparentemente nuovi. Uto Ughi fin qui ha ragione. Tuttavia una domanda si pone: chi, fra i grandi, può essere assolto dal non essersi richiamato ad altri? Beethoven stesso – che ascolteremo col raramente eseguito (per imprecisate e immotivate ostilità protrattesi per anni da parte di critici sicuramente sordi) “Trio in mi bemolle maggiore op.70 n.2” -, ammise di aver guardato eccome al suo immediato predecessore e persino maestro Haydn. E così via per mille altri autori. Dunque, se è ampiamente riconosciuta una sempiterna metamorfosi musicale in cui i suoni vivono e si rigenerano attraverso congiunzioni di anelli a catena, con esiti a volte migliori ed altre peggiori, perché non dare credito, o quantomeno del tempo, a chi tenta di cercare nuove strade seppure inciampando nelle vecchie? E’ da questi tentativi che sono nati, anche, i capolavori. Haydn e Beethoven – come decine e decine di musicisti – furono agli inizi considerati degli insolenti innovatori. E certo Uto Ughi lo sa bene. Come sa che i giovani vanno aiutati (lo ha sempre fatto lui per primo!) non scoraggiati sul nascere.
Ma torniamo a Beethoven. Il suo trio deriva da un altro, appena scritto prima, che ebbe invece grande fama. Era, quello, il 70 n.1, detto “Degli Spettri”, ricco di una insolita carica emotiva e fantastica che rapì per il suo effetto sorpresa. Nell’aria in esecuzione dagli “Altenberg”, invece, si ritrova il Beethoven più tradizionale, dalla melodia scorrevole, perfetta nel giro armonico, piacevole nel cantato subito orecchiabile, e solo a tratti, in qualche sfumatura, cedevole al richiamo bitonale del più intraprendente trio precedente. Sta di fatto che entrambi questi pezzi piacquero tantissimo alla contessa Marie von Ertódy, alla quale un galante Beethoven li dedicò.
Il concerto chigiano si concluderà poi con l’ultima delle grandi opere cameristiche con accompagnamento di pianoforte di Felix Mendelssohn-Bartholdy, il “Trio in do minore op.66 n. 2”. Una pagina da restarne affascinati per la sua bellezza leggera e semplice, per il suo ruotare attorno alla tonalità del do minore legando, nel dialogo virtuoso degli strumenti, un incipit di sonorità meditative alle soavi aperture finali. Bel saggio di abilità, per il “Trio Altenberg”, e una serata di musica decisamente radiosa per gli abituè di Palazzo Chigi.
Ma chi ama la delicatezza di violino piano e violoncello non deve farsi sfuggire questo piccolo squarcio sereno tra le impietose piogge di febbraio. E troverà i biglietti (dai 6 ai 20 euro, e ricordiamo che la Chigiana adotta prezzi davvero unici) al botteghino di Palazzo Chigi giovedì 5 dalle ore 16 alle 18,30, e venerdi 6 tra le 20 e le 21. Poi, solo gli “Altenberg”.