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Tre giovani concertiste per l’appuntamento del Franci

di Gianni Basi
SIENA. Tre giovani concertiste e cinque deliziosi brani di musica sei-settecentesca. Il tutto da ascoltare col piacere dell’ingresso libero, in una sera di questo mite fine settembre. E’ quanto propone, anzi letteralmente offre, il quinto appuntamento del Festival Franci 2009.
La sera è quella di domani (29 settembre), il luogo è la Chiesa di San Giuseppe in contrada dell’Onda, e le giovani interpreti, nuove leve del classico ma già avvezze agli scenari della grande musica nonchè tutte diplomate all’Istituto Superiore di Studi Musicali Rinaldi Franci di Siena, sono Elena Ciampelli al flauto traverso, Elena Meniconi al violino e la pianista e varia tastierista Francesca La Morgia al clavicembalo.
Abili soliste ma anche valenti comprimarie in formazioni orchestrali e cameristiche, le tre ragazze hanno formato un brillante ensemble fra loro, il “Dialogo Armonico”, che rappresenta la punta di diamante con cui vivono “in progress” la loro crescita musicale. Intensa al punto tale da partecipare a stages e masterclasses utilissimi alla ricerca della massima perfezione tecnica e, nel contempo, frequentando i corsi di Musica Antica d’Insieme de “Il Rossignolo” tenuti da maestri di pregiate arie d’antan. La violinista Elena Meniconi, in particolare, studia anche la viola e può vantare di già la qualifica di professore d’orchestra.
Un trio perciò di notevole spessore malgrado la giovane età. Ma è forse meglio dire “proprio” per la giovane età. Nota lusinghiera, questa, al pensiero di quanti esecutori e compositori del classico hanno saputo regalarci arie sublimi e pari interpretazioni in prima persona sin dall’adolescenza. Stiamo quindi parlando di un Franci dalla indubbia veste poliedrica, e sempre più produttore di talenti. Un conservatorio modello che opera sulla scia di molti fra i grandi e dello stesso Johan Joachim Quantz (il primo autore che ascolteremo in serata), i quali non si sono limitati alla conoscenza di un solo strumento ma hanno amato suonare di tutto, dirigere, compenetrarsi totalmente nel cuore pulsante di ogni elemento vitale – un respiro finanche – che potesse dirsi “suono” e, ancor più, costituire un insieme armonico. A questo proposito, Jean Philippe Rameau, di cui le tre giovani “francine armoniche” eseguiranno la terza aria del concerto, si disse convinto che, nell’emissione dei suoni, sia soprattutto la forza assonante degli accordi, dunque proprio l’armonia, a sostenere l’intero impianto musicale. Non perciò la melodia, nicchia della conseguente imbastitura e tessitura di quegli stessi accordi, che ne incarna e traccia poi il percorso. La stessa cosa, facendo milioni di passi indietro, si può dire sia valsa agli ominidi della preistoria. Molto probabilmente, ancor prima di proferire parola, emisero suoni di gola modulandoli in una sorta di canto di cui – goffo ma comprensibile atteggiamento – se ne meravigliarono e compiacquero assai. Tentativi relazionali, scoperta insperata di un uso vocale non importa se da noi pensato maldestro e sgradevole quando, per loro, poteva rappresentare una splendida sinfonia fatta, appunto, di primitivi “accordi armonici”. Di sicuro, fondamenti essenziali atti a sviluppare il linguaggio che ora è nostro con l’aiuto di “melodie” indistinte e composte magari da un oh-ah-uac-puf-puf che, ripetuto, aveva tutte le ragioni per diventare l’hit del momento o se volete “il tormentone”. Aggiungiamoci le percussioni (prima supposta e credibile forma suonata) prodotte su rami, cortecce, o pietra su pietra, e l’insieme può essere stato di fattura non male visto che, non pochi contemporanei, fanno più o meno le stesse cose facendole passare per genialità esclusive. La musica, in ogni caso, comunque sia e quali siano le emozioni che produca, è sin dalle sue origini fonte fortunatamente inesauribile d’ispirazione, struttura miracolosa fatta di calcolo ritmico persino inconsapevole e di tonnellate di fantasia. Quantz, dicevamo, non si accontentò di avere imparato a suonare il piccolo organo di famiglia ma volle conoscere i misteri del violino, della tromba, dell’oboe e del clavicembalo. E non fu il solo. Bach, Mozart e tanti altri suonavano tutto quello che avevano a tiro. Potessero, costoro guarderebbero con entusiasmo ad un McCartney abituato ad incidere da solo i suoi dischi passando da uno strumento all’altro. Un unicum invidiabile, sbalordibile, il sogno di ogni musicista. Che una tale ventata di eclettismo musicale stuzzichi la voglia di progredire delle tante giovani promesse “made in Franci”, e come ora sappiamo delle due Elene e della Francesca in trio, stupisce e rende ammirati, e invita a correre ad ascoltarle.
La forma delle “sonate a tre”, fra le più in voga nel secolo dei lumi, vedrà in apertura l’esecuzione di un amabile “Trio” di Quantz che – rifacendoci a quanto detto sulle immense possibilità della musica – ha stavolta la caratteristica di poter essere suonato anche, ad esempio, dal solo flauto. Uno strumento per il quale, come accadde in più occasioni a Bach e a Johan Hemlich Roman, lo stesso Quantz ebbe modo di scrivere molte sue partiture al fine di donarle a Federico II di Prussia che era a sua volta appassionato flautista. Il risalto maggiore di ciò, e ne avremo prova nel secondo momento della serata, lo troviamo proprio nel genio di Johann Sebastian, che confezionò da par suo una vera “offerta musicale” per re Federico. In verità fu il sovrano stesso a richiedergli un tema in do minore che avesse qualcosa di particolare e desse il senso dell’improvvisazione. E Bach, con la “Sonata sopra il Thema Regium” (ovvero sul “soggetto regale” dettato da Federico) approntò un “largo-allegro-andante-allegro” coi fiocchi in cui il flauto la fece da padrone e le evoluzioni corali in trio fluirono tra saliscendi e trame da capogiro. Al punto di ricordare tosti frammenti dell’Arte della Fuga e delle Variazioni Goldberg, col “sopra” ad indicare vorticosi passaggi di stile, alzate di tono, ripetizioni di inciso. “Non è roba da ascoltare facendoci la barba” – ha scritto in proposito il critico Antonio Lavarello (rivolgendosi chissà perché ai soli uomini, ma… anche le donne, perlomeno quelle “rock dei primitivs” del nostro discorso sul neozoico, ce l’avranno pure avuta…). Col terzo brano e terzo trio, eccoci a Johan Helmich Roman. Grandissimo violinista e al contempo oboista e direttore orchestrale, egli è a tutt’oggi acclamato in patria come “Padre della musica svedese”. Nei quattro movimenti di “adagio-allegro-andante-presto assai” del “Trio in sol minore” di Roman si noteranno i richiami a Scarlatti, Pergolesi, e la sorpresa di un certo che di haendeliano. Di un altro eccelso violinista, il bergamasco Pietro Antonio Locatelli, seguirà un sontuoso trio in sonata, quello della “Prima Opera quinta”, unica sua opera da camera ed aria conducibile ad echi vivaldiani e ancor più al genere dei concerti grossi di Corelli. Ma la tecnica di Locatelli è tutta sua ed è di quelle sopraffine, fatta di lampi virtuosistici che non a caso, nell’Europa del ‘700, vennero definiti “mostruosi”. Dura ed esaltante prova per Elena Meniconi. Con Jean Philippe Rameau passiamo, infine, al “Concerto V pour le Clavecin”, col cembalo protagonista e flauto e violino di rimessa ma di squisito dialogo ed intreccio. Dopo lo stile galante espresso nelle musiche dedicate a Federico II, si entra ora con Rameau, organista supremo del tempo di Luigi XV, nella raffinatezza melodica francese. Rameau era famoso per ridondare di note ogni partitura. L’effetto era senz’altro “speciale” ma, nei cantati, riuscire a stare sui suoi amati giri armonici era spesso un problema. Qui, in questo brano gentile, si potranno apprezzare tre movimenti a seguire,   detti La Forqueray, La Cupis e La Marais, scritti come atto celebrativo e poetico in omaggio a musicisti suoi contemporanei, intriso di sentimento e di tanta “douce France”. Quella di una volta, tanto cortigiana con le sue gran dame quanto ruspante coi galli a svolicchiare nelle aie, cara e nostalgica soprattutto per un Rameau che al pezzo attese in piena maturità compositiva.
Ma, prima di gustarsi queste belle e tonificanti pagine barocche del Festival Franci, in San Giuseppe, alle 21 del 29 settembre, ci può ben stare una sosta in qualche bistrot del centro giusto per un veloce aperitivo da pre-concerto. Per esempio, mettendosi “seduti a quel caffè”…. Sull’onda di una certa musica – fra le poche non classiche eppure eterne – che sembra sempre suggerire qualcosa, a molti di noi, ad ogni 29 settembre che si rispetti.
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