di Gianni Basi
Estate Musicale Chigiana – Suor Angelica – mercoledi 26 ore 21,15, S. Agostino
Una costante dell’Accademia Musicale Chigiana, ed è bello sottolinearlo in questa conclusione della 78^ stagione estiva, è l’aver dato spazio ai concerti d’insieme fra allievi e maestri.
La Chigiana è fra le poche istituzioni musicali, senz’altro fra le prime, a darne così tanto. Assiduamente e, perchè no, fortunatamente imitata. Complimenti sinceri. Tanto più che leggiamo in questi giorni che, al gruppo degli eletti, si è unito il “Festival Sesto Rocchi”, bassa padana, fra Reggio e Parma. Al che ci chiediamo come abbia fatto, un grande critico come Sandro Cappelletto, affermando entusiasta che “il divismo non abita qui, il piacere di fare musica assieme si”, a segnalare la caratteristica “d’insieme” di quel festival come una novità assoluta dimenticandosi di dare il dovuto risalto all’opera certosina che la Chigiana, da anni ed anni, cura nei confronti di giovani provenienti da tutto il mondo. Non solo, ma facendo di ex chigianisti (Accardo, Gelmetti, o dobbiamo citarli tutti?) i musicisti di oggi che insegnano ai musicisti di domani, e ci suonano insieme, e insieme allestiscono progetti ed opere liriche.
Un ulteriore esempio è dato proprio da quest’ultimo grandioso appuntamento della stagione chigiana, quando, domani (26 agosto), in Sant’Agostino alle 21,15, verrà rappresentato il melodramma “Suor Angelica” di Giacomo Puccini che verrà diretto, in alternanza, da due allievi del corso di direzione d'orchestra di Gianluigi Gelmetti, i promettenti neo maestri Alessandro Cadario e Paolo Carbone.
Si concluderanno così anche quest’anno in uno scenario operistico i due intensi mesi di musica classica a Siena, come avvenne la scorsa estate col “Gianni Schicchi”. Ed anche stavolta con la supervisione di Gelmetti, che viene affiancato dal maestro Maurizio Dones, dalla assistente artistica Eleonora Paterniti, e col golfo mistico occupato dalla Sofia Festival Orchestra di Alipi Naydenov con Ryuickiro Sonoda pianista collaboratore. Interpretato da un nutrito cast-voci tutto al femminile di primissimo piano, con nei ruoli principali Chiara Angella (Suor Angelica), Annunziata Vestri (la zia principessa) e Wakako Ono (Suor Genovieffa), l’atto unico di Puccini, come è noto, appartiene al celebre Trittico col “Tabarro” e il “Gianni Schicchi”.
Scritta attorno al 1917, “Suor Angelica” è l’opera di mezzo, ma tutti e tre i lavori furono rappresentati in un “tre atti unico” in prima assoluta al Metropolitan di New York nel dicembre del 1918. Era l’anno in cui finiva una guerra, assurda come non ci stanchiamo di definire ogni guerra, e il lieto finale col “Gianni Schicchi”, pochade in cui finalmente si ricominciava a ridere dopo quattro anni bui per le sorti del mondo, fu conseguentemente l’opera meglio accolta. Ma il “Tabarro” e “Suor Angelica” vennero nel tempo rivalutate per i contenuti profondi e, soprattutto, fortemente pucciniani. Prendiamo la storia cui assisteremo in Sant’Agostino. I fatti si svolgono in un monastero verso la fine del ‘600. Angelica ha preso i voti per espiare la colpa (…) di aver avuto un bimbo fuori dal matrimonio, figlio che è stata costretta a tutti i costi ad abbandonare. Non ne ha saputo più nulla e, alla visita di una perfida zia, viene informata della morte del bimbo, da anni malato. Il dolore è tale che Angelica si avvelena ma, prima di morire, chiede perdono per essere stata così debole di fronte a Dio ed alla vita che le aveva dato, e implora un ultimo segno di assoluzione. Ed ecco il miracolo. La Madonna le appare e le dona il bimbo perchè da quel momento restino insieme, e forse nel “per sempre” più vero. Be’, che Puccini sia uno specialista nel farci stare male nei finali lo sappiamo tutti. Ma che nelle opere ci sia qualche male che vale la pena di vivere dentro, lo sappiamo pure. Si tenessero a mente, certe vicende, intrise che siano di retoriche o di enfasi a volte più che necessarie e dunque ben vengano, molte scellerate azioni umane si eviterebbero, l’uccidere su tutte. Così facile da sempre e a tutte le latitudini. Per eseguire un ordine inumano, per togliersi un capriccio inumano o, come Suor Angelica, per vincere un dolore che poi non si saprà di aver vinto e che invece è lui, il dolore, a vincere alla grande. Follie. Puccini, Verdi, Shakespeare nelle tragedie diventate opere, come e più di altri ci hanno fatto vedere la morte in musica solo per adescarci in arie irresistibili e, con quelle, sedurci ad evitarla, non darcela, non procurarla. La musica, quel tipo di musica che nei finali strappalacrime fa ballare il cuore, è stata aggiunta alle parole solo per scavarci meglio nei sentimenti, darci lo schiaffo in faccia giusto, e al suono confortante dei violini, non di bazooka, per ricordarci meglio di amare tanto tanto il regalo della vita. Se tutto questo non vi fosse, se una musica, un libro, un film non ce lo indicassero, forse saremmo ancora più duri e disumani. Forse. Non ci squagliassimo di fronte a parole come quelle che ascolteremo cantare a Suor Angelica, queste ad esempio: “Alla Madre soave delle Madri non posso offrire di scordar… mio figlio, il figlio mio! La creatura che mi fu strappata, che ho veduto e baciato una sol volta!”…, e se, a ciò, restassimo indifferenti, saremmo ancor più capaci di strappare figli, abbandonarli, non riconoscerli, e di mille altre idiozie. Gran merito, per questi moniti, al libretto di Giovacchino Forzano. Cui la musica di Puccini fa da arcobaleno insolito, disegnandosi non dopo l’acquazzone ma durante. Musiche perciò belle, struggenti come devono essere. L’assolo “Senza mamma” fa capire quanto un preziosissimo “con” non valga un’oncia bucata quando ci limitiamo a circoscriverlo a noi stessi ma sia toccasana indispensabile quando ne facciamo diventare parte gli altri, lo “con-dividiamo”, allontanandoci il più possibile dai “senza” che sono solitudine e tormento. Le opere sanno quindi comunicarci parecchio, e per carità non sono quelle “scocciature” che molti credono. Non si può sostenere di “non capirci niente” se, poi, si rinuncia, quantomeno, a porre un piccolo orecchio, ammirato, alla magnificenza delle melodie. Le opere sono amate, ed anche dai giovani, e non è affatto vero, come si dice a mo’ di luogo comune, che le vadano a vedere solo “gli anziani”. Nei teatri di Roma, Palermo, Amsterdam, Berlino, Siena, personalmente di giovani ne abbiamo visti sempre tanti, e con tanto di piacere e di libretto. L’opera buffa e l’operetta ne sono l’alter ego, l’ideale evasione che però, anche qui, ci ricorda qualcosa: la necessità non tanto di sorridere ma di “sorriderci”. Molto meglio che sorridersi da soli, come diceva Totò. Dopo questa pagina così “benefacente”, l’Accademia Chigiana, più che mai “musichificio” anche propedeutico, e ci mancherebbe non solo per l’opera, riaprirà i battenti attorno al prossimo novembre. Ma fra il 27 e il 31 di agosto ci sarà ancora posto per gli ultimi concerti dei giovani allievi. Queste le date: la classe di pianoforte di Michele Campanella in Palazzo Chigi alle ore 21,15 giovedi 27; gli allievi di viola di Bruno Giuranna il venerdi 28 stessa sede e orario; ancora direzione d’orchestra coi giovani di Gelmetti il 29 ai Rozzi alle 21,15; la classe di violino di Accardo in Palazzo Chigi domenica 30 sia alle ore 17,30 che alle 21,15; quella di violoncello di Geringas il 31 alle 17,30 in Palazzo Chigi e, infine, sempre nella sera di lunedi 31 a Palazzo Chigi, la classe di canto di Renato Bruson alle 21,15. Andare ad ascoltare questi ragazzi significa dare davvero qualcosa di grande ad ognuno di loro. Più grande di un applauso. A risentirci dunque a novembre, ma il “Cittadino”, come sempre, con quel suo piglio un po’ guascone che ci ricorda qualche probabile foglio di duecento anni fa, col “cittadino giornalista” in coccarda tricolore che lo “strilla” per le vie di Parigi, continuerà ad offrire ai suoi lettori un’informazione musicale che ci piace definire “la più amica possibile”. Ed ora, che Puccini, Gelmetti, Dones, Naydenov e i giovani chigiani alzino il sipario.