di Silvana Biasutti
SIENA. La spinta a scrivere riprendendo il tema del rapporto tra i segnali culturali e i prodotti di un ‘distretto’ ce l’avevo da tempo. È un argomento che mi appassiona fin dai primi accenni al “nostro petrolio” su quotidiani e periodici e incrocia la critica ai politici incapaci, alle ricorrenti crisi, alla mancata crescita – e anche al cambiamento climatico e all’incapacità di vederlo, di farci i conti e (ovviamente) di farlo diventare un business.
Da una vita si parla e si legge delle nostre straordinarie risorse culturali e paesaggistiche, del patrimonio artistico ricchissimo, il più ricco, unico, eccetera (il nostro ‘petrolio’). E a fronte di tale ricchezza leggo – e qualche volta mi è toccato di vedere da vicino – le pastoie burocratiche, la corruzione, l’incapacità dei “nostri” (di volta in volta, amministratori locali, politici, partiti di governo, classe dirigente, eccetera) di capire e mettere a frutto in modo felice tale ‘petrolio’ nostrano per creare accessi per i giovani, carriera per i più meritevoli, ossigeno per il paese oppresso e vessato da tasse, balzelli e adempimenti (ma allo stesso tempo capace di risparmi privati immobili – e i risparmiatori paralizzati dalla paura, dalla sfiducia e dalla visione di un modo globalizzato dai pescecani – ).
Come tutti quelli che hanno sempre lavorato per far lievitare idee e incrementare fatturati, attivando strategie di comunicazione costruite su dati reali e possibilità di crescita reale, per di più confortata da analisi scientifiche con autentici professionisti coinvolti, ho occhi per vedere, e mi ritrovo così a osservare settori produttivi e realtà sociali a cui sono più o meno vicina, che reiterano le stesse azioni banali e di poca efficacia. È come se non avessero capito che il mondo cambia continuamente; non sembra che vi sia sensibilità ai nuovi spazi e alle occasioni di comunicazione offerti da fenomeni in rapida evoluzione; si ha l’impressione che non si sappiano capire le logiche di un mercato mutato, cominciando da utenti e consumatori che cambiano abitudini, o forse alla comunicazione viene attribuito un ruolo secondario (sarà per questo che così spesso le promozioni di prodotti con storie ricche e suggestive sono così povere d’idee e sciatte nell’esecuzione?). Eppure il cambiamento è tangibile; porta con sé evoluzione di gusti, genera nuove opportunità, è mosso da nuovi stimoli e rinnova il clima culturale.
La cultura! La sento citare con maggiore frequenza, e oramai ne parlano e la citano anche quelli che l’hanno sempre snobbata. E parlandone molti si sentono già in credito, perché pensano che basti la parola; ma ora si è pure capito che può voler dire soldi, e allora c’è qualche speranza che non resti una citazione, ma che finalmente si capisca che lì si possono trovare strumenti importanti per uscire dall’angolo in cui ci siamo relegati, e lavorare comunicando in modo strategico.
Ma al netto della resistenza a capire come e perché la cultura è un tema vivo ed è un asset per il Paese, resta la sorprendente assenza d’idee sul che fare della nostra ricchezza, e come valorizzarla come nostro principale vantaggio competitivo. I giovani, che dovrebbero crescere con la consapevolezza di stare in mezzo a paesaggi, tradizioni, testimonianze artistiche, linguaggio unici e invidiati da tutto il mondo, spesso ne sanno poco o nulla o non ne vedono che l’aspetto più superficiale e di consumo; molti giovani crescono e parlano un italiano sbrindellato e pieno di orrori, le famiglie vedono solo quello che promette un po’ di futuro per i figli. Banche, aziende e istituzioni promuovono eventi culturali lontano da obiettivi che vadano verso una crescita collettiva di consapevolezza: spesso gli abitanti di un luogo non ne conoscono i beni culturali e sono distanti dalla sua fruizione. A me pare che nel nostro Paese la cultura resti, in generale, compiacimento per pochi.
Vengo a stare, ogni tanto, in provincia di Siena, nella terra di una città che per secoli ha visto artisti e agricoltori lasciare tracce sublimi in ogni angolo del territorio, ora disegnato dalle coltivazioni e raccontato in tavole e affreschi che raccontano la storia dei tempi che si sono susseguiti e ne hanno fatto un contesto ammirato da tutto il mondo. Questa è anche terra di vini molto buoni che sono riusciti ad attrarre prima l’attenzione dei palati più competenti ed esigenti, poi – anche grazie al grandioso paesaggio – l’attenzione occhiuta della finanza. Inevitabile però che il vino, in quanto liquido e inebriante, assomigli di più al petrolio, di quanto non possa provarci una pala d’altare, o un filare di cipressi piantati nel momento strategico del crinale contro il cielo. E questo, ancora una volta, rischia di mettere in luce solo l’aspetto più superficiale e meno condivisibile delle risorse in campo
Possibile che, ancora una volta, una risorsa strategica non sia vista come ricchezza per l’immaginario e l’intelligenza collettivi, ma solo come risorsa da mettere a frutto come fossero appartamenti da affittare per far soldi?
Perché non sarà certo la bigliettazione per ammirare la pala d’altare a fornire risorse affinché i giovani abbiano più futuro. Bisognerebbe invece che la visione della pala d’altare – e la sua storia, e la comprensione di tale storia, la sua elaborazione – fossero parte della collettività e soprattutto riuscissero a toccare l’immaginario dei più giovani. Sono convinta che senza capire chi siamo e com’è la nostra storia non possiamo immaginare un futuro – che non è (solo) un posto di lavoro, che prima è un posto nella vita –. Dunque la pala è solo una parte (emblematica) per qualcosa di molto più grande e complesso e più difficile da condividere. Un tutto che è strategico soprattutto per i più giovani; un tutto che di fatto è la casa in cui viviamo, che è vitale riconoscere come propria e difendere da banali speculatori alla ricerca di altri guadagni.
Ma non si tratta solo di difendere quel capitale incompreso, bisogna farlo vivere, renderlo attuale; si dovrebbe capire, una buona volta, che senza quegli affreschi, quei suoni, quelle forme, quelle canzoni, noi non saremmo noi, e nemmeno quei vini sarebbero così, perché in superficie lavorano l’enologo o il bravo vignaiolo – ma accade così perché stanno in una storia, una poetica, che li porta ad agire in quel modo. E qualcuno la chiama tradizione. E qualcun altro sostiene che però bisogna essere moderni, perché la contemporaneità ce lo chiede. E hanno ragione entrambi, ma come fare se non c’è consapevolezza, se solo pochi sanno di stare in una ‘casa’ così straordinaria, se solo pochissimi hanno voglia di conoscenza?
E qui arrivano i Fiamminghi a suggerire come raccontare la propria storia, con un case history che gira per il mondo e che trasforma quella che potrebbe essere solo una felice promozione in un’emozionante esperienza personale – così viva da diventare toccante – un racconto capace di coinvolgere anche l’intera città con abitanti e imprenditori. La storia è quella dell’Agnello Mistico di Ghent e dei fratelli van Eyck, che hanno dipinto il polittico che ne prende il nome. La storia di un capolavoro che si intreccia a quella della città in cui è nato – e dove, durante la seconda guerra mondiale, i nazisti che hanno rastrellato le opere d’arte più preziose, gli avevano dato la caccia –, una storia che dà conto di tradizioni religiose e popolari, e coinvolge infine le tradizioni gastronomiche dei luoghi.
La comunicazione ci emoziona e racconta storie d’amore, usando testimonial odierni, con esemplari storie di diversità e li mette in relazione con i personaggi raffigurati nel polittico (che è stato recentemente restaurato); il messaggio, che parte dalle figure di Adamo e Eva, è un invito all’amore, alla conoscenza, all’acquisizione della diversità – ed è caldo e vivace. Non c’è retorica né autocompiacimento, tantomeno l’orgoglio di chi si sente padrone dei luoghi; tutta la comunicazione è segnata dalla consapevolezza della propria storia e delle sue vicissitudini, di cui il polittico e i grandi artisti che l’hanno dipinto sono parte, ma anche dalla voglia di condividerla e di usarla come messaggio all’universo mondo; guardi il filmato, leggi poi il testo che racconta e dà anche informazioni pratiche e funzionali e ti viene voglia di andare e conoscere, non solo il polittico e la sua storia, ma quella gente e quella città. E poi assaggiare anche le loro specialità culinarie, che devono essere notevoli, dato che fanno parte di quel racconto straordinario: è una campagna pubblicitaria che non sembra tale e ti viene perfino voglia di bere un boccale della loro birra.
E mentre degusti tutto ciò inizi a pensare. La campagna è stata realizzata con ampiezza di mezzi, il film, le immagini, i testi, gli allestimenti: tutto è impeccabile. Ci sarà stata una gara per affidare il lavoro? In qualsiasi modo sia andata è evidente che hanno scelto di premiare talento e professionalità.