di Paola Dei
SIENA. Presentato in concorso alla 71a Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, giunge nelle sale il film dell’egiziano/armeno naturalizzato canadese Atom Egoyan. Un gioiello della cinematografia fatto di sguardi e ritmi incalzanti che ci conducono dentro i labirinti della memoria per ricordarci che il mistero non é al di fuori e al di sopra ma molto più vicino e in basso, nella profondità della psiche di ognuno di noi. Interpretato da due mostri sacri della cinematografia come Chris Plummer e Martin Landau, grande caratterista per Hitchcock nel film Intrigo internazionale del 1959. Alcuni hanno infatti rivisto nell’opera un film del maestro del brivido che se è vero che ispira il cineasta Egoyan nelle riprese incalzanti e nel tema del doppio in un gioco di specchi che ci vengono mostrati con il punto di vista di Max, introduce però innovazioni e tematiche che rivisitano la storia collettiva attraverso una storia personale attraverso la quale il regista mette in luce tutte le deformazioni del potere e le conseguenze del male. Quel male di cui ci ha parlato Primo Levi e ben descritto da Hannah Arendt nella sua insuperabile descrizione e lucida analisi di coloro che sono stati capaci di compiere crimini indescrivibili nella più assoluta indifferenza. La storia é quella di due anziani signori ricoverati in una casa di riposo, uno in carrozzella, l’altro con segni ascrivibili alla malattia di Alzheimer.
Max, l’anziano in carrozzella, studia e architetta una vendetta che travolge e sconvolge le situazioni lasciandoci attoniti davanti ad un finale impensabile già anticipato dallo sguardo lungimirante dello stesso Max, un viaggio alla ricerca di sé stesso più che dell’altro. Un finale che alla maniera di Tolstoj squarcia un velo e come un guanto rovescia significati nascosti. Un film per non dimenticare, un plot che parla di Shoah, di aguzzini nazisti, di partigiani desiderosi di chiudere la partita ma soprattutto un film da vedere proprio per non dimenticare, fatto di silenzi che come bolle sonore quasi assenti di musica, ci presentano fantasmi del passato interrotti da urla e parole visti ancora con lo sguardo di Max e ripresi in secondo piano dalla macchina da presa per arrivare ad un finale con un campo e controcampo di struggente realtà. Come non ricordare Train de vie del 1999 di Radu Mihaileanu, l’affabulazione intorno ad una inverosimile felicità per chi si trovasse a vivere in qualsiasi condizione ad Auschwitz.
Un bel film poco valorizzato a Venezia e forse disperso fra le opere di mostri sacri che hanno trovato troppa corrispondenza ad Hitchcock.