di Giulia Tacchetti
SIENA. “Quanta beffa c‘è nello spazio della nostra vita; chiusi nel nostro destino; morte, sangue; amici che vomiteranno sul tuo cadavere”: queste sono espressioni colte nello spettacolo di ieri sera (la recensione si riferisce alla replica di domenica 19) fatto di molti silenzi, brevi monologhi, senza un apparente filo narrativo, sotteso dalla ricerca del drammaturgo-regista-attore Armando Punzo.
L’opera è un’immersione e nello stesso tempo emersione dalle opere di Shakespeare, come ha tenuto a precisare lo stesso regista durante la presentazione dello spettacolo venerdì nel foyer del teatro. Secondo lui “bisogna abbandonare una certa visione a cui siamo abituati dell’artista “, “abbandonare gli stereotipi ed ascoltare le voci flebili dei personaggi”. Nelle opere del Bardo emerge una condanna dell’uomo, la visione di un mondo tragico fatto di invidie, tradimenti, corruzione. Tra le maglie delle vicende narrate e delle parole Punzo cerca di cogliere il “non detto” o meglio ipotizza una rivolta dell’uomo, per questo Shakespeare va letto associato a tutte le sue opere. E’ come se il regista, che è anche il drammaturgo, avesse cercato tutta una serie di segni nelle opere di Shakespeare (nello spettacolo di stasera troviamo Otello, Riccardo III, Macbeth, Amleto) che in qualche modo vanno contro la sua drammaturgia. Ci potremmo chiedere: è possibile trovare qualche cosa in un essere umano, che non sia quello che lui ci ha lasciato? Dove si dirigono quei due, bambino ed adulto, tenendosi per mano, alla fine della rappresentazione? Quella palla lasciata ai piedi della scena allude ad un mondo diverso? Forse c’è una speranza, un futuro. ù
Quindi più che un lavoro sui testi, che Punzo come classici considera sacri ed intoccabili, va ad approfondire l’uomo, a dargli la parola nella sua aspirazione ad un’altra esistenza. I personaggi nella loro scarna recitazione a momenti sembrano scagliarsi contro il loro autore che li ha creati per condannarli. Salgono le scale per raggiungere la loro croce o le scale offrono una via di fuga, una nuova possibilità? Notevoli e molto curati i costumi (Emanuela Dall’Aglio) tipici del teatro classico (gorgiere, tuniche lunghe); particolari le musiche (Andrea Salvadori), accompagnate da colpi cadenzati, grazie ai microfoni posti sotto il grande telo bianco, che copre il pavimento della scena. Il bianco predomina (solo due regine e lo stesso Punzo sono vestiti di nero) e forse anche questo è un indizio che lancia il regista, visto che il bianco è un colore puro, unico. Anche le scene (Alessandro Marzetti e Silvia Bertoni), una grande vela bianca, che allude al naufragio della barca del fratello di Prospero e le numerose croci, che scendono dall’alto, rispondono alla sontuosità del teatro classico.
Lo spettacolo ha un ritmo lento, i personaggi che si aggirano per la scena non sono legati ad una narrazione e risultano ripetitivi nei loro gesti, come Desdemona, che si muove esibendo una postura contorta e un fazzoletto bianco. Ci colpisce, però, il monologo di Otello perché dà emozioni, quando urlando chiede la verità. Nel complesso lo spettacolo risulta criptico e senza tempo. Solo se ci si lascia andare, senza cercare di riconoscere e capire tutto, appare ricco di suggestioni visive ed acustiche, anche se a momenti finiamo per perderci. Importante è stata la presentazione del regista al pubblico prima dello spettacolo, in cui ha chiarito non solo il suo lavoro su Shakespeare, ma anche il suo stretto rapporto, e quindi del teatro, con gli attori-detenuti del carcere di Volterra. “Come è possibile che leggendo un testo il detenuto comprenda tutto, soprattutto le sue azioni? Il teatro è una battaglia per la libertà. Forse il detenuto può comprendere solo attraverso il suo vivere quotidiano”.
Il pubblico mostra un alto gradimento chiamando più volte attori e regista per applaudirli.