Enrico IV e la pazzia per la prima volta da regista del dramma dell'autore siciliano
di Giulia Tacchetti
SIENA. Torna Il tema dell’inganno sul palcoscenico dei Rinnovati. Nel “Don Giovanni” di Molière nasce dalla volontà di potenza; in “Tradimenti” di Pinter è provocato dall’egocentrismo dei personaggi; nell’”Enrico IV” rappresenta il malessere dell’uomo moderno scisso tra la maschera imposta dalla società e la ricerca del vero io. Follia e realtà, finzione e verità: sono questi gli elementi portati in scena da Federico Branciaroli, per la prima volta regista del dramma pirandelliano (la recensione si riferisce alla seconda replica). Scritta nel 1921 e presentata a Milano l’anno successivo, l’opera sembra rispettare i caratteri della tragedia attraverso le unità aristoteliche di spazio, quello tradizionale della reggia, tempo e azione. In realtà tutto è falso: la reggia è una messa in scena, il re è un uomo comune, di cui non sapremo mai il nome, che finge di essere Enrico IV. Egli da otto anni continua a recitare consapevolmente la parte del pazzo, circondato da servitori che si vestono e si comportano come dignitari di corte, dopo che per dodici anni è stato veramente folle in seguito ad una caduta da cavallo, provocata dall’avversario Belcredi, che ha potuto così sottrargli la donna amata, Matilde. Il dramma ottocentesco, con un rivale in amore ferito, è un pretesto per rappresentare un tema già presente ne “Il fu Mattia Pascal”. Solo ritirandosi dalla vita, rimanendo ai margini di una società che provoca la frantumazione “ dell’io”, è possibile osservare con lucida estraneità l’esistenza reale e conservare i propri sentimenti. Perciò dopo venti anni, quando Matilde, la figlia Frida, il fidanzato Di Nolli, Belcredi ed uno psichiatra si recano nella villa, trasformata in reggia, nel tentativo di guarire Enrico IV, questi trafigge il rivale, non tanto per gelosia, quanto per cancellare il mondo del rimosso, i dolori del passato e per conservare l’immagine del pazzo, l’unica che gli consente di guardare la vita fuori dalle terribili convenzioni sociali.
Branciaroli recita con lucida padronanza della scena, della gestualità, senza eccedere nei toni, ora farseschi e ironici nell’espressione della pazzia, ora netti e penetranti nella rivelazione. Il lungo monologo del II atto è la prova per eccellenza dell’attore e del regista, che ci offre un esempio di come si può attualizzare, rispettandolo, un testo del teatro classico. La riduzione a due atti è una scelta mirata a rendere la rappresentazione più veloce e quindi più fruibile al grande pubblico. Emerge nella compagnia il ruolo dello psichiatra, che nel suo interloquire con gli altri personaggi suscita momenti di comicità. Convincente l’interpretazione di Belcredi e Matilde; meno incisive le prestazioni recitative degli altri personaggi, forse per un minore rodaggio nel teatro classico. Le scene di Margherita Palli evidenziano lo spazio drammatico con macchine mobili, drappi che scendono dall’alto ed una gigantografia di un cavaliere con la sua corazza a cavallo, che sottolineano la realtà e la finzione, come pure i costumi ora attuali ora di tipo medievale. Curati anche gli effetti delle luci (Gigi Saccomandi), che mettono in risalto i momenti culminanti del dramma, come la confessione di Enrico IV. Il pubblico presente, non particolarmente numeroso, ma con rilevanti presenze di giovani, applaude calorosamente, mostrando di avere gradito lo spettacolo.