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Micat in Vertice: le vette celesti di violoncello e pianoforte

di Gianni Basi
SIENA. Chi si recherà venerdi (5 marzo) a Palazzo Chigi Saracini per assistere al concerto per violoncello e pianoforte di Steven Isserlis e Denes Varjon godrà di una serata di particolare sensibilità musicale. Tutto il classico, è indubbio, sa generare un benefico transfert fra esecutore e ascoltatore. Ma quando vi sono di mezzo questi strumenti in dialogo, come accadrà alle ore 21 nello splendido salone chigiano, ebbene, è molto possibile che lo sposalizio dei suoni tocchi un apice celeste. Del resto, il connubio piano-archi è sempre qualcosa di speciale.
Il sestetto in re maggiore op.110 di Mendelssohn, ad esempio, è un vero trionfo (e non vediamo l’ora di sentirlo in Chigiana…).  Ma anche il solo piano e cello sanno creare un pathos unico, in questo caso estremamente intimo e “pieno”. L’uno fa da limpida colonna portante e l’altro, con le sue intromissioni corpose, viaggia nei cuori come un bulldozer di burro. Grande è stata, e lo sarà ancora, la presenza in questo Micat in Vertice del maestoso violoncello, strumento che incarna alla grande l’ingrediente sonoro e sa adattarsi ad ogni tipo di musica sostituendosi ad ogni corale e nel colmare vuoti tonali altrimenti fragili. Chopin e soprattutto Schumann, fra gli autori più eminenti in ascolto nella serata, lo sapevano bene. E l’Accademia Chigiana, per suo conto, che stavolta li ha inseriti nel Micat in Vertice pressocchè ripetutamente, ha approfittato di alcune fra le loro pagine più belle per celebrare, di entrambi, il bicentenario dalla nascita che ricorre quest’anno.
Steven Isserlis, pilastro da anni della Wigmore Hall di Londra, è un appassionato cultore del ruolo essenziale del violoncello. Lo suona volentieri anche in partiture di musica contemporanea ed è molto interessato all’uso degli strumenti d’epoca per poter così riversare sul moderno il profumo di una antica autenticità. Bach, Scumann, Brahms, Chopin e Beethoven sono i suoi autori preferiti, dei quali ha suonato di tutto esibendosi con orchestre internazionali e direttori di grido come Simon Ratte e Philippe Herreweghe, spesso in coppia con partner prestigiosi ed anche con lo stesso Denes Varjon. I due artisti hanno costellato il loro percorso musicale di premi speciali e lusinghieri, tra cui lo Schumann-Zwickau, il Disc of the Year e il Critic’s Choice per il violoncellista inglese, e il Zurich Géza Anda, il Premio Listz e il Leo Weiner per Denes Varjon, oltre ai ripetuti successi nei più importanti festival cameristici. Varjon, che in Ungheria è considerato uno dei maggiori musicisti magiari di sempre, ha debuttato con la Camerata Accademia Salzburg dopo essere stato allievo prima di maestri quali Sandor Falvai e Ferenc Rados e poi di András Schiff. Il pianista ungherese tiene dal ’94 la docenza all’Accademia Musicale di Budape st e, sempre negli anni ’90, ha avuto l’onore di essere scelto da Sir Georg Solti per eseguire al Barbican Centre di Londra la magistrale “Sonata per due pianoforti e percussioni” di Bela Bartók, e proprio in duetto con Schiff. Queste sì che sono soddisfazioni. Ma anche Steven Isserlis può vantare preziosi camei. Uno è, nientemeno, il più ambito premio per un artista inglese, il CBE (Commander of the British Empire) di cui è stato insignito nel ’98 a riconoscimento del lavoro svolto al servizio della musica e, non ultima, la sua passione a suonare per i bambini insegnando loro l’arte del violoncello. Lo fa in particolare con due libriccini, divertenti anche nei titoli (“Chissà perché a Beethoven non piaceva lo stufato?” e “Come mai Haendel scuoteva sempre la parrucca?”, e con un CD, imperdibile per i cellisti in erba, che ha chiamato “ Children’s Cello”.
Sarà con un autore conosciuto a pochi che Isserlis e Varjon apriranno la bella serata di Palazzo Chigi. Si tratta di Erno von Dohnany, compositore ungherese appartenente all’ondata di innovatori del primo novecento che, da studente, fu elogiato dallo stesso Brahms per il suo talento e poi, divenuto famoso, ebbe come allievi sia il pianista Géza Anda che il direttore Sir Georg Solti. Verrà eseguita la sua “Sonata in si bemolle maggiore op.8”, gradevole composizione in cui di von Dohnany si può facilmente individuare non solo un nuovo linguaggio cameristico ma anche la netta influenza della musica popolare del suo Paese e un certo costante richiamo alle pietre miliari del romantico. Del secondo brano, la “Sonata n.3”, Steven Isserlis ha trascritto la parte schumaniana, ovvero l’intermezzo e il finale, tratti dalla cosiddetta “Sonata F.A.E.” che venne composta dal trio formato da Robert Schumann Albert Dietrich e Johannes Brahms  come regalo di compleanno per il comune amico Joseph Joachim, il maggiore violinista del tempo. Rapportata al giorno d’oggi, ci ricorda un’estemporanea iniziativa degli anni ’90 in cui, dal nulla, venne fuori un’allegra banda chiamata “Adelmo e i suoi Sorapis” e creata dal Fornaciari, il noto blues singer Zucchero, che si divertì a nascondere in quel titolo dall’aria vagamente assiro-babilonese le iniziali dei valenti musicisti che gli furono compagni di baldoria. Per Schumann Dietrich e Brahms si trattò di un’operazione altrettanto fantasiosa che portò ad una sonata per violoncello e pianoforte di grande equilibrio, appassionata e rigorosa al contempo, e comunque in sintonia col buonumore dei tre autori. In quel “F.A.E.”, scaltramente, essi nascosero un piccolo enigma che proposero al perplesso Joachim di indovinare, cosa che avvenne solo con l’intervento – incredibile a dirsi – nientemeno che di Sherlock Holmes, sorprendente musicista anch’egli. Dopo varie indagini, il celeberrimo “elementare, Watson!” di Holmes si risolse con due ipotesi: l’acronimo poteva condurre alla successione delle note F – A – E, le nostre fa – la – mi, su cui era basato il brano; o invece quella sigletta misteriosa si riferiva al detto “Frei aber Einsam” di cui il convintissimo single Joachim si fregiava. Ma il suo sbandierato grido di battaglia (“libero ma solo” nella traduzione) si andò presto a far benedire non appena egli stesso fu in odore di matrimonio… Ed ecco i tre amici a fargli il tiro mancino sbattendogli in faccia, a suon di musica, il crollo del suo tenace celibato e ironizzando su quel motto in verità un tantino contorto. Brahms per primo non ci pensò due volte ad invertire lo slogan in un più coerente “solo ma libero”, fiero del suo incallito ripudio di ogni vincolo e mai ammettendo che, sotto sotto, non c’era nulla che lo tormentasse più della sua maledetta solitudine…  
Detto di questa amena storiella ottocentesca, a suo modo romantico-goliardica quanto la musica che ne venne fuori, passiamo ora alla penultima esecuzione in Palazzo Chigi e veniamo alla “Sonata op.6” di Samuel Barber, uno dei maggiori pianisti contemporanei americani. Autore di numerose arie classiche fra cui un accattivante “Adagio per Archi” che si è ascoltato in alcuni passaggi del film Platoon, Barber scrisse anche un’infinità di composizioni per piano di genere vario, dal blues al jazz al boogie-woogie. La “Sonata op.6” che verrà presentata in concerto era in origine per solo violoncello e fu scritta da un Barber ventiduenne e ruspante che voleva misurarsi anche con altri strumenti. Poi vi unì il pianoforte e i suoni si limarono in un forte lirismo tanto che il brano divenne uno fra i più rappresentativi del panorama classico americano. La chiusura del concerto, affidata alla “Sonata in sol minore op.65” di Fryderych Chopin, rivela una qualche (ed ovvia) preponderanza del piano sul violoncello, ma senza che l’equilibrio ne risenta. Il sostegno di delicati fraseggi armonici e le coloriture raffinate attribuiscono al pezzo una originalità sempre viva, vero asso nella manica del compositore polacco, qui in versione matura ed alle prese con un percorso sonoro che proprio al tocco del violoncello acquista luci più fastose in confronto ai “solo piano” del suo tradizionale repertorio. La “Sonata op.65”, che stranamente non fu molto valutata ai tempi di Chopin, è invece fra le più belle che si conoscano. Molti, successivamente, come ahinoi troppo spesso accade nell’arte, ne parlarono ammirati come di un superbo canto del cigno. Listz la defininì “semplicemente sublime”.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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