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di Gianni Basi
SIENA. Rodolphe Kreutzer, primo violino all’Operà di Parigi e pupillo di Napoleone Bonaparte, curiosamente ha a che fare con gli autori del secondo appuntamento di Micat in Vertice dell’Accademia Chigiana di questo venerdi 4 dicembre. Teatro del concerto, ore 21, nel candore degli stucchi del salone di Palazzo Chigi Saracini, con l’esecuzione affidata al Quartetto Bennewitz ovvero il più bel fiore all’occhiello cameristico della Repubblica Ceca.
Kreutzer era ammirato da Mendelssohn, da Beethoven ancora di più, e Leoš Janá?ek gli dedicava, cento anni dopo, un quartetto. Ma Kreutzer, oltre a costituire ancora oggi il “passi” per accedere agli studi superiori di violino nei conservatori, è più noto per una torbida vicenda raccontata da Lev Tolstoj, la “Sonata a Kreutzer” appunto, che non per il suo raffinato talento. Beethoven, che lo conobbe in età matura, compose per lui una sonata per violino e pianoforte; Janá?ek fu ispirato da quel racconto di Tolstoj per scrivere anch’egli una sonata e stavolta per quartetto d’archi. Vediamo allora quale ruolo ebbe questa sorta di personaggio ombra il cui riferimento è tra l’altro costante motivo d’ispirazione di registi e commediografi. Il bello è che di Kreutzer, nel libro, è solo citato il duetto a lui dedicato da Beethoven, dunque nient’altro che la voglia di Tolstoj di fare aleggiare un’intrigante aura musicale su di una storia di passione e di sospetto tradimento. Proviamo a svolgerne le fila. Un tale signor Pozdnyšev confessa ad un compagno di viaggio la sua gelosia per la bella moglie pianista, culminata in un dannato uxoricidio. Il problema – che Tolstoj stesso traccia a mo’ di enigma nel racconto – è se il focoso marito a quel gesto atroce fosse stato davvero portato o se si trattò solo di un tragico equivoco. Fatto sta, tornando a casa in piena notte, egli trova la moglie assieme ad un violinista col quale, in concerto, l’aveva vista suonare il “Kreutzer” di Beethoven. I due stavano soltanto a cena (strana cena a quell’ora però), ma questo bastò a Pozdnyšev per sentirsi tradito e per giunta con l’aggravante che alla moglie quel violinista l’aveva presentato proprio lui. Pertanto beffa ed intrico in bella mostra, in una storia frutto non solo della grandezza letteraria di Tolstoj ma pur anche di una sua indubbia vena pre-hitchcockiana…
Serata in giallo perciò, pur se molto tra le righe ma con un Kreutzer abbastanza nell’aria in questo concerto in Palazzo Chigi. L’apertura, con l’amabile “Quartetto in la minore op.13 di Mendelssohn, sarà comunque rassicurante. Inizio soft, quasi in sussurro, ma gli archi saliranno di tono nella fase di mezzo e violoncello e viola staranno magnificamente a rivaleggiare col sibilo dei violini in alternanza di temi, d’intreccio, di ritmo, e poi lo scioglimento di tutto in chiusura pacata. Veniamo ora al pezzo di Janá?ek, quello del pasticciaccio tragico. Bene, Janacek lo rappresenta e lo personalizza. Scritto nel 1923, a pochi anni dalla morte, il “Quartetto n.1, Sonata a Kreutzer” è in realtà legato ad un suo amore folle per una giovanissima donna. I contrasti, la passione, la perdita di testa di Janá?ek la fanno da padrone in questa composizione sofferta. Ma egli, contrariamente all’epilogo del racconto di Tolstoj, lascia tutto in sospeso: come se quell’amore impossibile non avesse mai fine. Le sonorità che si ascolteranno, assai liriche ed intime, saranno infatti staccate, frammentate come una mente alle prese con mille pensieri. E’ una voluta incompiuta che si snoda ad ostacoli tra dolcezze, isterismi, abbandoni, corde spesso in dissonanza, come in questi casi lo sono quelle del cuore. Temi dunque che partono facendo credere di arrivare a qualcosa e poi invece si interrompono ed aprono a nuove soluzioni, tanto diverse da risultare per alcuni avvincenti e per altri irritanti data la suspence senza fine che creano. Janá?ek voleva fortemente che fosse così, intendendo attingere al “Kreutzer”, ma solo per esaltare il suo, di amore, e pazzo che fosse per vederlo come “cosa che non doveva mai macchiarsi di morte”.
Il Beethoven che seguirà, col “Quartetto il la minore op.132”, denota il desiderio che egli ebbe di mettere in musica un’ode in virtù del superamento di una sua lunga malattia e di elevarla a ringraziamento divino. Benchè soprattutto l’aria centrale – che chiamò “canzone offerta alla divinità da me guarito” – parta con un adagio malinconico, lo slancio vitale non tarda ad emergere e si inerpica in intuizioni e varianti accese che ruotano nel leit motiv e seducono all’ascolto. La forza della guarigione diventa irrefrenabile, tra respiri di sollievo e senso gioioso, e si ritrova il vero Beethoven.
I quattro giovani, che venerdi sera offriranno al pubblico una serata così altamente emotiva, hanno chiamato “Bennewitz” il loro gruppo in onore di un grande violinista, Antonin, vera icona in Boemia. Suonano insieme dal 1998 e, da allora, vantano una formazione ad archi rimasta fedele ai componenti originari, amiconi e gemelli in coppia persino nei nomi di battesimo: Jiri Nemecek e Stepan Jezek ai violini, Jiri Pinkas alla viola e Stepan Dolezal al violoncello. Vincitori di un numero impressionante in così pochi anni di competizioni internazionali, tra cui il Theodor Rogler, il Bärenzeiter Urtext Prize, la Medaglia d’Oro all’Internazionale di Musica di Osaka, l’anno scorso hanno ottenuto uno dei premi più ambiti dagli ensemble cameristici, il “Paolo Borciani” di Reggio Emilia. Incidono e registrano incessantemente per case discografiche e radiofoniche, e il loro suono si avvale di svariate componenti espressive oltre che di tecnica squisita. Viaggiano ormai in continue tournée, richiesti dai centri più noti del classico ossia quelli tipicamente divisi fra America, Giappone ed Europa. Tra i festival a cui hanno partecipato ne eccelle uno antichissimo.
In una celebre favola dei Grimm c’è un detto, riferito alla “musica impossibile” suonata, per sopravvivere, dai maldestri asino cane gatto e gallo della storia, che così recita: “Qualcosa da inventarsi, che sia meglio della morte, volendo si trova dappertutto!”. E da allora non c’è musicista che non aspiri a recarsi almeno una volta nella mitica e leggendaria Brema dei “4 Musikanten”. Grandi anche loro, questi Bennewitz.
SIENA. Rodolphe Kreutzer, primo violino all’Operà di Parigi e pupillo di Napoleone Bonaparte, curiosamente ha a che fare con gli autori del secondo appuntamento di Micat in Vertice dell’Accademia Chigiana di questo venerdi 4 dicembre. Teatro del concerto, ore 21, nel candore degli stucchi del salone di Palazzo Chigi Saracini, con l’esecuzione affidata al Quartetto Bennewitz ovvero il più bel fiore all’occhiello cameristico della Repubblica Ceca.
Kreutzer era ammirato da Mendelssohn, da Beethoven ancora di più, e Leoš Janá?ek gli dedicava, cento anni dopo, un quartetto. Ma Kreutzer, oltre a costituire ancora oggi il “passi” per accedere agli studi superiori di violino nei conservatori, è più noto per una torbida vicenda raccontata da Lev Tolstoj, la “Sonata a Kreutzer” appunto, che non per il suo raffinato talento. Beethoven, che lo conobbe in età matura, compose per lui una sonata per violino e pianoforte; Janá?ek fu ispirato da quel racconto di Tolstoj per scrivere anch’egli una sonata e stavolta per quartetto d’archi. Vediamo allora quale ruolo ebbe questa sorta di personaggio ombra il cui riferimento è tra l’altro costante motivo d’ispirazione di registi e commediografi. Il bello è che di Kreutzer, nel libro, è solo citato il duetto a lui dedicato da Beethoven, dunque nient’altro che la voglia di Tolstoj di fare aleggiare un’intrigante aura musicale su di una storia di passione e di sospetto tradimento. Proviamo a svolgerne le fila. Un tale signor Pozdnyšev confessa ad un compagno di viaggio la sua gelosia per la bella moglie pianista, culminata in un dannato uxoricidio. Il problema – che Tolstoj stesso traccia a mo’ di enigma nel racconto – è se il focoso marito a quel gesto atroce fosse stato davvero portato o se si trattò solo di un tragico equivoco. Fatto sta, tornando a casa in piena notte, egli trova la moglie assieme ad un violinista col quale, in concerto, l’aveva vista suonare il “Kreutzer” di Beethoven. I due stavano soltanto a cena (strana cena a quell’ora però), ma questo bastò a Pozdnyšev per sentirsi tradito e per giunta con l’aggravante che alla moglie quel violinista l’aveva presentato proprio lui. Pertanto beffa ed intrico in bella mostra, in una storia frutto non solo della grandezza letteraria di Tolstoj ma pur anche di una sua indubbia vena pre-hitchcockiana…
Serata in giallo perciò, pur se molto tra le righe ma con un Kreutzer abbastanza nell’aria in questo concerto in Palazzo Chigi. L’apertura, con l’amabile “Quartetto in la minore op.13 di Mendelssohn, sarà comunque rassicurante. Inizio soft, quasi in sussurro, ma gli archi saliranno di tono nella fase di mezzo e violoncello e viola staranno magnificamente a rivaleggiare col sibilo dei violini in alternanza di temi, d’intreccio, di ritmo, e poi lo scioglimento di tutto in chiusura pacata. Veniamo ora al pezzo di Janá?ek, quello del pasticciaccio tragico. Bene, Janacek lo rappresenta e lo personalizza. Scritto nel 1923, a pochi anni dalla morte, il “Quartetto n.1, Sonata a Kreutzer” è in realtà legato ad un suo amore folle per una giovanissima donna. I contrasti, la passione, la perdita di testa di Janá?ek la fanno da padrone in questa composizione sofferta. Ma egli, contrariamente all’epilogo del racconto di Tolstoj, lascia tutto in sospeso: come se quell’amore impossibile non avesse mai fine. Le sonorità che si ascolteranno, assai liriche ed intime, saranno infatti staccate, frammentate come una mente alle prese con mille pensieri. E’ una voluta incompiuta che si snoda ad ostacoli tra dolcezze, isterismi, abbandoni, corde spesso in dissonanza, come in questi casi lo sono quelle del cuore. Temi dunque che partono facendo credere di arrivare a qualcosa e poi invece si interrompono ed aprono a nuove soluzioni, tanto diverse da risultare per alcuni avvincenti e per altri irritanti data la suspence senza fine che creano. Janá?ek voleva fortemente che fosse così, intendendo attingere al “Kreutzer”, ma solo per esaltare il suo, di amore, e pazzo che fosse per vederlo come “cosa che non doveva mai macchiarsi di morte”.
Il Beethoven che seguirà, col “Quartetto il la minore op.132”, denota il desiderio che egli ebbe di mettere in musica un’ode in virtù del superamento di una sua lunga malattia e di elevarla a ringraziamento divino. Benchè soprattutto l’aria centrale – che chiamò “canzone offerta alla divinità da me guarito” – parta con un adagio malinconico, lo slancio vitale non tarda ad emergere e si inerpica in intuizioni e varianti accese che ruotano nel leit motiv e seducono all’ascolto. La forza della guarigione diventa irrefrenabile, tra respiri di sollievo e senso gioioso, e si ritrova il vero Beethoven.
I quattro giovani, che venerdi sera offriranno al pubblico una serata così altamente emotiva, hanno chiamato “Bennewitz” il loro gruppo in onore di un grande violinista, Antonin, vera icona in Boemia. Suonano insieme dal 1998 e, da allora, vantano una formazione ad archi rimasta fedele ai componenti originari, amiconi e gemelli in coppia persino nei nomi di battesimo: Jiri Nemecek e Stepan Jezek ai violini, Jiri Pinkas alla viola e Stepan Dolezal al violoncello. Vincitori di un numero impressionante in così pochi anni di competizioni internazionali, tra cui il Theodor Rogler, il Bärenzeiter Urtext Prize, la Medaglia d’Oro all’Internazionale di Musica di Osaka, l’anno scorso hanno ottenuto uno dei premi più ambiti dagli ensemble cameristici, il “Paolo Borciani” di Reggio Emilia. Incidono e registrano incessantemente per case discografiche e radiofoniche, e il loro suono si avvale di svariate componenti espressive oltre che di tecnica squisita. Viaggiano ormai in continue tournée, richiesti dai centri più noti del classico ossia quelli tipicamente divisi fra America, Giappone ed Europa. Tra i festival a cui hanno partecipato ne eccelle uno antichissimo.
In una celebre favola dei Grimm c’è un detto, riferito alla “musica impossibile” suonata, per sopravvivere, dai maldestri asino cane gatto e gallo della storia, che così recita: “Qualcosa da inventarsi, che sia meglio della morte, volendo si trova dappertutto!”. E da allora non c’è musicista che non aspiri a recarsi almeno una volta nella mitica e leggendaria Brema dei “4 Musikanten”. Grandi anche loro, questi Bennewitz.