di Gianni Basi
SIENA. Mentre si stanno svolgendo in questi giorni i saggi finali per gli Allievi chigiani in Palazzo Chigi Saracini, e il docente dei corsi di violino Giuliano Carmignola ha da poco inaugurato al Teatro Garden di Chianciano l’altra grande concomitante manifestazione dei “Maestri chigiani in terra di Siena”, in città siamo al terzo appuntamento di un’Estate Musicale tutta da vivere sino al 27 di agosto.
Settantasette anni di note. Questa rassegna, famosa in tutto il mondo, se li porta addosso spargendo su Siena la splendida sensazione che la musica non ha mai fine.
Intanto ecco due grandi interpreti, nella chiesa di Sant’Agostino alle ore 21,15, in questo martedì 29 luglio, appena reduci dal successo grossetano dei “Maestri chigiani”. Suonano molto spesso in coppia, Antonio Meneses e Gérard Wyss, dando il meglio di sé nel repertorio otto-novecentesco con, in particolare, Beethoven, Debussy e Sostakovich. Ma abbracciando vieppiù gli autori più vari e sondando di tanto in tanto temi sudamericani molto cari a Meneses per via delle sue origini d’oltre oceano. Celebre il duetto dei “Bachianas Brasileiras” di Villa Lobos con cui hanno conquistato, giocando con Bach, anche il pubblico di salsa e merengue. Wyss, svizzero dei cantoni francesi, si distingue per la grande precisione sui tasti del pianoforte, per l’eleganza e la chiarezza del tocco e per una notevole versatilità che lo porta non solo a cimentarsi con diversi strumenti ma spesso ad accompagnarli col canto. Antonio Meneses suona, con estrema cura, un prezioso violoncello Alessandro Gagliano del 1730 e ne sa mettere a fuoco tutte le qualità timbriche possibili per poi svilupparle con valente efficacia. Non per niente, giovanissimo, è stato primo violoncello nel “Don Chisciotte” di Strauss sotto la direzione di von Karajan e, in seguito con lo stesso Wyss, ha partecipato ad incisioni memorabili come quella di tutti i Lieder di Schubert e ad acclamate tournée in Europa, America e Giappone. Docente sia chigiano che, ancora con Wyss, insegnante presso il Conservatorio di Basilea, dallo scorso anno Meneses è stato accreditato anche della cattedra all’Hochschule der Künste di Berna.
Nella serata in Sant’Agostino, i due musicisti eseguiranno partiture di quattro autori romantici della portata di Beethoven, Schunmann, Mendelssohn, e dello stesso Sergey Rachmaninov pur se, questi, è di scuola posteriore e rivela facilmente quanto la sua ispirazione si divida fra l’amore per Tchaikowsky e la passione per Mahler. Del primo brano in esecuzione, le “12 Variazioni sul tema Ein Mädchen oder Weibchen” di Beethoven, tratto dal “Flauto Magico” di Mozart, riserveremo più ampi dettagli nel finale. Di Robert Schumann è pertanto l’aria che segue, ovvero l’”Adagio e Allegro in la bemolle maggiore op.70” che, originariamente, era stata scritta per corno e pianoforte. Da qui, un’intesa fra gli strumenti a volte un po’ ostica e strana, ma il dialogo fra cello e piano si riscatta alla grande allorquando la melodia tende ad impennarsi tra momenti accesi e di alto virtuosismo. Bella l’immagine retrò di una Clara Schumann al piano, sotto gli occhi di Robert, in un duo risalente al 1850 che vedeva, al violino, l’amico ed impresario della coppia Friedrich Kistner. Con la “Sonata in re maggiore n.2 op.58”, di Felix Mendelssohn, entriamo ancor più nel lirismo romantico. Se ne avvertono distintamente i sapori: a volte un soffio di spiritualità e poesia, altre quella particolare improvvisa irruenza che dà vivacità a tutto il brano. La “Sonata in sol minore op.19” di Rachmaninov, esuberante e creativa, sembra danzare invece sull’ intreccio di note di un piano e un violoncello molto dispettosi, che fanno a gara a primeggiare l’uno sull’altro. Si inseguono fra toni quando distesi quando drammatici, ma sempre svettando all’unisono non appena l’onda corale si fa più “agitata”, specie nell’ “allegro-mosso” finale. Ed eccoci all’aria “Ein Mädchen oder Weibchen”, un “Donna tutta d’un pezzo o tenera mogliettina”, tradotto nel bucolico “Colomba o Tortorella”, che il buffo uccellaio Papageno canta alla sua buffa uccellaia Papagena nel secondo atto de “Il Flauto magico”. Un’opera, questa, che prima Salieri poi Wagner e Goethe giudicarono come uno dei pilastri del melodramma romantico tedesco. Forte di un appagante lieto fine, è l’ultimo vero grande capolavoro di Mozart. La fiaba, tratta da antiche novelle, contiene un che di massonico ispirato alla bellezza ed alla sapienza, e si svolge in un Egitto immaginario. Lo stesso cast, nella prima rappresentazione viennese del 1791, non disdegnò una certa forma corporativa se non addirittura familiare. Mozart stesso era sul podio, il librettista Emanuel Schikaneder impersonava Papageno, la cognata di Mozart era la Regina della Notte, un amico del compositore aveva la parte del principe Tamino, e così via per Pamina, Sarastro e gli altri interpreti sparpagliati fra parenti e conoscenti. Il brano, rivisitato da Beethoven in 12 variazioni in fa maggiore per cello e piano, interessa un’aria fra le più simpatiche e brillanti dell’opera. La musica sembra descrivere per filo e per segno l’esitante momento in cui Papageno non crede ai suoi occhi quando, per magia, gli appare-scompare-riappare una avvenente Papagena, la donna che segretamente aveva sempre sognato. Al che –l ui a cui non era mai stato concesso amore – si pone per la prima volta il problema del se fosse meglio preferirla donna e basta, questa insperata compagna, e quindi colomba, oppure (come più gli garberebbe) femmina seducente e dunque tortorella. Il tocco di un Beethoven eccezionalmente in vena di divertirsi, datato 1798, non che abbellisca la già perfetta partitura di Mozart, ma senza dubbio la rende più equilibrata, a mezzo tra le sfumature ironiche e la profondità veritiera dei sentimenti. Meneses e Wyss, dal canto loro, a segno di quanto sia godibile nel suo insieme la serata in Sant’Agostino, trasformano l’aria in una sonata tutta piena di papagenico brio.