La messa in scena è filologica nella sua contemporaneità
di Giulia Tacchetti
SIENA. Arturo Cirillo, alla presentazione del programma teatrale in corso, aveva così espresso il punto di vista adottato nel portare in scena “L’Avaro” di Molière “…Non ho mai avuto l’impressione che i contemporanei siano più contemporanei dei classici. Molière non è farsesco o sempliciotto….vive la comicità come una forma attraverso la quale dire la verità…” Arpagone è un uomo che rivendica contro tutti, anche contro i figli, il diritto alla vita, alla sessualità, perché ha i soldi, il potere. L’amore per le cose, per il denaro, non per le persone è il tema dominante ed è un tema molto contemporaneo. Arpagone racconta bene l’Italia di oggi: avido di tutto, toglie il respiro a chi vive con lui. Vengono in mente coloro che si rifugiano nei paradisi fiscali a contare soldi che non comprano più niente. Lo spettacolo, la prima è andata in scena il 23 marzo, risulta filologico nella sua contemporaneità, segue la traduzione di Cesare Garboli, elegante, leggero, cupo, insomma una delle migliori operazioni che si possono compiere su un testo classico da parte di un regista. Cirillo come attore dà vita ad un Arpagone che non vorremmo vedere in altro modo: vestito di nero (i costumi sfumati e senza tempo sono di Gianluca Falaschi), curvo, ma forte nel roteare con violenza il bastone contro chi lo contraddice, con i capelli bianchi lunghi, secondo l’uso dell’epoca, arruffati tanto da nascondergli il volto, perché è la voce che fa il personaggio, rauca, da vecchio, tagliente quando rivendica il potere. Gestisce tutta l’azione, è il perno dello spettacolo , intorno al quale ruotano gli altri personaggi, senza tuttavia schiacciare le loro personalità, tra i quali emerge soprattutto la frizzante “mediatrice” Frosina, che non cade mai in inutili volgarità, interpretata da Sabrina Succimarra.
Lo spazio si articola in maniera prospettica attraverso tre ampie cornici, che si chiudono verso il fondo nero. Le scene, ben costruite da Dario Gessati, sono accompagnate dall’uso sapiente delle luci di Badar Farok, bianche e nere quando il suono crudele di un carillon (le musiche sono di Francesco De Melis) fa muovere i personaggi come in una pantomima ed alla fine, quando tutti i protagonisti si presentano in scena e guardano il loro padre-padrone disteso a terra, con il volto coperto dalla cassetta piena di denaro. Ciò che conta non è la storia a lieto fine, ma le riflessioni che suscita. Colpisce come negli ultimi anni ritorni in scena frequentemente un tema: il rapporto violento tra padre e figli. Penso al “Filippo” di V.Alfieri con l’ottima regia di Valerio Binasco, che ha debuttato al Carignano di Torino nel 2010, molto vicino a Cirillo nel riproporre la modernità del classsici senza forzate alterazioni, come invece abbiamo visto nel “Romeo e Giulietta” di Serena Sinigaglia.