CHIUSI. Prosegue con grande successo di pubblico la Stagione invernale del Teatro Mascagni della Città di Chiusi, domani sera (12 dicembre) alle 21,15, sarà la volta di Marco Baliani – senza dubbio uno dei grandi protagonisti della scena italiana contemporanea – che, in questi mesi, sta portando in scena un proprio riadattamento del celebre e controverso romanzo "La pelle" di Curzio Malaparte, ci racconta come è nato questo suo nuovo progetto teatrale..
Marco da cosa nasce l'esigenza di rileggere "La Pelle" di Malaparte?
La prima ragione che mi ha spinto verso il romanzo di Malaparte è stata proprio la bellezza dell'opera, il fascino che questa narrazione, collocata alle soglie di un discusso maledettismo letterario, aveva esercitato su di me.
Così all'inizio ha agito la fascinazione emotiva verso Malaparte, maestro maledetto, poi si è definito l'interesse artistico precipuo che è senza dubbio quello di mettere il dito dove non si dovrebbe, mostrando, ad esempio, la vendita del corpo come conseguenza della pace.
Dunque la vendita del corpo come metafora di una deriva etica che appartiene ad un sistema politico e sociale apparentemente pacificato?
Certamente, la vendita del corpo, ricorrente nel romanzo di Malaparte, è la conseguenza di una società che si avvia al benessere e soggiace passivamente al meccanismo del profitto che si estende a qualsiasi aspetto dell'esistenza umana: si può vendere tutto e tutto si può comprare in uno spazio, quale quello della miseria post-bellica nei vicoli di Napoli, in cui lo sfruttamento è totale e la libertà vieppiù falsa ed illusoria.
Malaparte è stato un autore di grande genio narrativo, nelle medesime pagine ti descrive le preziose porcellane di una nobiltà in declino e la cruda e mostruosa realtà che fagocita il pianeta.
Definiresti il tuo teatro come esperienza di teatro impegnato?
Rispetto a certe categorie bisogna essere estremamente prudenti. Ad esempio, io cerco di essere abbastanza distante dal cosiddetto "teatro civile" perché ritengo che nella vita ci sia già troppa oggettività e si dovrebbe evitare di fare della scena un altro luogo dell'oggettività. Il teatro non deve portare in scena la cronaca o la storia, piuttosto deve produrre conflitti e mostrarli.
Spesso il "teatro civile" diventa una sorta di teatro a tesi e questa cosa è insopportabile perché un consimile prototipo di teatro parla a persone che già sanno ma non sposta anime, non parla alla polis.
Insomma, il teatro deve mettere in discussione le certezze dello spettatore, deve rappresentare tipi umani e circostanze non riconciliabili con il mondo.
A proprosito delle circostanze che mettono in discussione le certezze dell'individuo, un tuo grande successo è stato "Corpo di stato", spettacolo di qualche anno fa, in cui parlavi, appunto, di un personalissimo dissidio interiore.
In "Corpo di stato" non intesi raccontare i fatti relativi al sequestro ed all'omicidio di Aldo Moro, infatti non mi interessava spiegare quanto piuttosto mostrare un personale momento di tormento, quello in cui l'ideologia fu costretta a relazionarsi alla violenza, lasciando emergere una serie di interrogativi ed incertezze nonché le cifre umane e contrastanti del fascino e dell'orrore.
Nell'ultimo mese abbiamo assistito ad un nuovo conato di impegno ideologico, soprattutto da parte degli studenti, come giudichi questo fenomeno?
Non saprei con precisione, anche se devo ammettere che pure il movimento del '68 nacque così, cioè dal dissenso dei giovani, degli studenti.
Però, allora, noi eravamo convinti che ci sarebbe stato, dopo, un futuro radioso, la nostra era più che una speranza, era una sorta di certezza e ci rafforzava nelle nostre idee.
Oggi, invece, il futuro fa paura, le giovani generazioni che provano a protestare vivono la quotidiana e costante negazione del futuro, hanno poche speranze per il loro domani e questo rende più precaria anche la loro onda di protesta.
Le sconsiderate politiche di tagli hanno investito anche il mondo dell'arte e del teatro. In che situazioni versa lo spettacolo oggi in Italia?
Sinceramente, sono ottimista. Nonostante i tagli, si continua a fare teatro e si continuerà a farlo, seppure con grande difficoltà. Anzi, molto spesso, in circostanze di economia arretrata, se ne fa di più ed anche migliore perché è come se la parola acquistasse più valore, un senso maggiore.
In questi giorni, oltre che in teatro, sei anche nelle sale cinematografiche con il film "Il passato è una terra straniera" di Daniele Vicari, tratto dall'omonimo romanzo di Gianrico Carofiglio. Che rapporto hai maturato con il cinema?
Il mio rapporto con il cinema nasce più da una sorta di contiguità professionale e relazionale che da una mia vera vocazione; mi piace farlo e, nel complesso, mi diverte, anche perché mi insegna cose diverse a livello attoriale, per esempio con il cinema ho affinato la microsensorialità.
Valuto il cinema alla stregua di un grande gioco con un enorme potere impattante.
Ed il tuo rapporto con la televisione?
La televisione è uno strumento autoreferenziale e malato.
Le manca la distanza critica, quella storica e quella poetica. Al limite, potrebbe anche rivelarsi, talora, uno strumento interessante, ma dobbiamo fare i conti con il fatto che non abbiamo mai avuto, in Italia, una televisione non omologata, in grado di produrre dei veri prodotti d'arte.