Sorrentino esplora nuove strade narrative
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di Paola Dei
SIENA. Proiettato alla 66a Mostra del Cinema di Cannes, La grande bellezza, affresco corale di Paolo Sorrentino scritto insieme a Umberto Cantarello con Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Roberto Herlizka, Galatea Ranzi, Iaia Forte, Pamela Villoresi, Carlo Buccirosso, Giovanna Vignola, Isabella Ferrari, Anna Della Rosa, Serena Grandi, distribuito in Italia da Medusa Film.
Un affresco corale che punta il dito sulla superficialità dei rapporti umani e sulla vacuità della vita della Roma bene, senza moralismi e affettati insegnamenti pedagogici. Un misto di sacro e profano che incanta e disincanta allo stesso tempo dove il regista esplora nuove strade narrative ma con la medesima forza stilistica che lo caratterizza.
Joe Gambardella, giornalista romano interpretato da Toni Servillo, è un uomo di sessantacinque anni che si autoracconta mettendo in scena la sua vita e quella dei personaggi che gli ruotano intorno in una Roma decadente fra contesse, nobiluomini, ricche e annoiate signore che si alternano sullo schermo accanto alla massa di turisti in cerca di monumenti senza tempo.
Accanto a lui Carlo Verdone approdato a Roma da un paesino di campagna in cerca di successo e di un copione da rappresentare a Teatro che lo porti ad emergere, poi Sabrina Ferilli nei panni della figlia di un cocainomane gestore di locali notturni, molto malata e disincantata della vita e Galatea Ranzi, donna apparentemente di successo che viene smontata irrimediabilmente dalla verace dialettica di Gambardella. Tagli visivi che uniscono un gruppo di amici, i pochi che mostrano ancora, ciascuno a suo modo, una tensione morale e ideologica in mezzo ad un dilagare inesorabile dell’inquietante crescita del vuoto.
Mentre la vita del giornalista scorre senza un senso profondo, di cui lui è cinicamente consapevole, colei che è stata il grande amore della sua vita, muore e Joe viene a saperlo dl marito che gli confida anche di aver scoperto dentro un diario di lei, come l’unico uomo amato nella vita sua stato proprio Joe, ma non sapremo mai perché lo lasciò se non intuendolo fra le righe e immaginando quanto i sogni di sicurezza e solidità di lei cozzassero con il bisogno di diventare il re della mondanità di lui. La ragazza appare in più di una sequenza e rappresenta il simbolo di purezza e metaforicamente di quella grande bellezza fatta di rari momenti di grazia, sommersa da una quotidianità banale e da riflettori sempre puntati sulla mise delle signore e sui loro eccessi. Frammenti di memoria che rimbalzano, si cercano, si congiungono con una intensità che ridefinisce la logistica del territorio percettivo.
Gli attimi in cui Joe ricorda la donna amata sono pervasi da un’inedita leggerezza che si esprime anche nelle musiche dai toni più caldi, rispetto agli altri registri narrativi con musiche fragorose che emergono nei momenti durante i quali vengono rivelati i volti in primo piano della società borghese intenta a bere cocktail anche senza averne voglia. Un rondò senza fine che alterna nelle ultime scene la figura di una Santa che ha vissuto anni in povertà a confronto con la pasciuta società frequentata da Joe, alla ricerca di una idea per scrivere il suo secondo libro, mai scritto per la troppa assiduità nelle feste che non lasciano spazio ad attimi di raccoglimento.
Il giornalista ritroverà la sua impronta di scrittore soltanto nel finale, quando Sorrentino, ce lo mostra in un primo piano ravvicinato ormai denudato di sovrastrutture e simbolo di uno, nessuno e centomila di Pirandelliana memoria. Tinte forti e pennellate nelle quali emerge il bisogno di ricomporre la rete dei sentimenti veri, dei colori tenui. Sorrentino conferma la capacità di raccontare la storia dei personaggi attraverso gli sguardi, i silenzi, i vuoti ed il rondò fin troppo pieno che si riempie proprio perché composto di nulla.
Impeccabile la recitazione di Toni Servillo, le inflessioni dialettali, la gestualità.
Il Film di Sorrentino già insignito del titolo di erede naturale di Fellini, mostra un gusto particolare per le atmosfere, scioltezza narrativa, gioco delle apparenze. Una sfida internazionale coraggiosa del cinema italiano che non esita a raccontare con esattezza di tocco e ironia, un Film che di certo sembra destinato a qualche premio sul suolo francese anche se il pubblico sembra già diviso in due ed i confronti con Fellini non portano certo acqua al suo Mulino. Fellini, Scola, Antonioni, sono stati i maestri di un’altra generazione, quando accanto alla decadenza conviveva la speranza e il mondo ravvicinato di internet era ancora lontano. Oggi inventare in mezzo ad una miriade di grandi occasioni e dopo mille percorsi editi non è certo semplice, tanto più se si considera che esprimere il bisogno di distinguersi rispetto alla volgarità dilagante può generare pesantezza.
Il cinema italiano dopo momenti di grande crisi sembra aver recuperato la sua anima, auguri a Sorrentino e non ci resta che attendere la premiazione.
SIENA. Proiettato alla 66a Mostra del Cinema di Cannes, La grande bellezza, affresco corale di Paolo Sorrentino scritto insieme a Umberto Cantarello con Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Roberto Herlizka, Galatea Ranzi, Iaia Forte, Pamela Villoresi, Carlo Buccirosso, Giovanna Vignola, Isabella Ferrari, Anna Della Rosa, Serena Grandi, distribuito in Italia da Medusa Film.
Un affresco corale che punta il dito sulla superficialità dei rapporti umani e sulla vacuità della vita della Roma bene, senza moralismi e affettati insegnamenti pedagogici. Un misto di sacro e profano che incanta e disincanta allo stesso tempo dove il regista esplora nuove strade narrative ma con la medesima forza stilistica che lo caratterizza.
Joe Gambardella, giornalista romano interpretato da Toni Servillo, è un uomo di sessantacinque anni che si autoracconta mettendo in scena la sua vita e quella dei personaggi che gli ruotano intorno in una Roma decadente fra contesse, nobiluomini, ricche e annoiate signore che si alternano sullo schermo accanto alla massa di turisti in cerca di monumenti senza tempo.
Accanto a lui Carlo Verdone approdato a Roma da un paesino di campagna in cerca di successo e di un copione da rappresentare a Teatro che lo porti ad emergere, poi Sabrina Ferilli nei panni della figlia di un cocainomane gestore di locali notturni, molto malata e disincantata della vita e Galatea Ranzi, donna apparentemente di successo che viene smontata irrimediabilmente dalla verace dialettica di Gambardella. Tagli visivi che uniscono un gruppo di amici, i pochi che mostrano ancora, ciascuno a suo modo, una tensione morale e ideologica in mezzo ad un dilagare inesorabile dell’inquietante crescita del vuoto.
Mentre la vita del giornalista scorre senza un senso profondo, di cui lui è cinicamente consapevole, colei che è stata il grande amore della sua vita, muore e Joe viene a saperlo dl marito che gli confida anche di aver scoperto dentro un diario di lei, come l’unico uomo amato nella vita sua stato proprio Joe, ma non sapremo mai perché lo lasciò se non intuendolo fra le righe e immaginando quanto i sogni di sicurezza e solidità di lei cozzassero con il bisogno di diventare il re della mondanità di lui. La ragazza appare in più di una sequenza e rappresenta il simbolo di purezza e metaforicamente di quella grande bellezza fatta di rari momenti di grazia, sommersa da una quotidianità banale e da riflettori sempre puntati sulla mise delle signore e sui loro eccessi. Frammenti di memoria che rimbalzano, si cercano, si congiungono con una intensità che ridefinisce la logistica del territorio percettivo.
Gli attimi in cui Joe ricorda la donna amata sono pervasi da un’inedita leggerezza che si esprime anche nelle musiche dai toni più caldi, rispetto agli altri registri narrativi con musiche fragorose che emergono nei momenti durante i quali vengono rivelati i volti in primo piano della società borghese intenta a bere cocktail anche senza averne voglia. Un rondò senza fine che alterna nelle ultime scene la figura di una Santa che ha vissuto anni in povertà a confronto con la pasciuta società frequentata da Joe, alla ricerca di una idea per scrivere il suo secondo libro, mai scritto per la troppa assiduità nelle feste che non lasciano spazio ad attimi di raccoglimento.
Il giornalista ritroverà la sua impronta di scrittore soltanto nel finale, quando Sorrentino, ce lo mostra in un primo piano ravvicinato ormai denudato di sovrastrutture e simbolo di uno, nessuno e centomila di Pirandelliana memoria. Tinte forti e pennellate nelle quali emerge il bisogno di ricomporre la rete dei sentimenti veri, dei colori tenui. Sorrentino conferma la capacità di raccontare la storia dei personaggi attraverso gli sguardi, i silenzi, i vuoti ed il rondò fin troppo pieno che si riempie proprio perché composto di nulla.
Impeccabile la recitazione di Toni Servillo, le inflessioni dialettali, la gestualità.
Il Film di Sorrentino già insignito del titolo di erede naturale di Fellini, mostra un gusto particolare per le atmosfere, scioltezza narrativa, gioco delle apparenze. Una sfida internazionale coraggiosa del cinema italiano che non esita a raccontare con esattezza di tocco e ironia, un Film che di certo sembra destinato a qualche premio sul suolo francese anche se il pubblico sembra già diviso in due ed i confronti con Fellini non portano certo acqua al suo Mulino. Fellini, Scola, Antonioni, sono stati i maestri di un’altra generazione, quando accanto alla decadenza conviveva la speranza e il mondo ravvicinato di internet era ancora lontano. Oggi inventare in mezzo ad una miriade di grandi occasioni e dopo mille percorsi editi non è certo semplice, tanto più se si considera che esprimere il bisogno di distinguersi rispetto alla volgarità dilagante può generare pesantezza.
Il cinema italiano dopo momenti di grande crisi sembra aver recuperato la sua anima, auguri a Sorrentino e non ci resta che attendere la premiazione.