di Mauro Aurigi
SIENA. Paola Nepi si ammalò a 10 anni di una malattia terribile, progressiva e incurabile. Ora ne ha 65 e da 3 è immobilizzata nel suo letto: respira e mangia grazie a due macchine e a due tubi, uno infisso nel collo e l’altro nella pancia. Ha perso la voce, ma con la mano destra, che insieme agli occhi e alle labbra è l’unica parte del corpo che riesce ancora a muovere, può scrivere. E’ così che ha cominciato: prima due raccolte di commoventi ed anche strazianti poesie ed ora questo Storie di via Cennano (Marco Del Bucchia Editore), il lungo racconto della sua infanzia vissuta nell’immediato secondo dopoguerra più nella strada, come si usava una volta, che nella sua casa di Montevarchi. Quelli che come me sono nati e cresciuti nelle e sulle lastre di Siena, non potranno non riconoscersi in quella esperienza e magari, come è successo a me, commuoversi nel rivivere con Paola la propria infanzia.
FINE DI UN’ERA DURATA MILIONI DI ANNI
Questa fatica (anche fisica, per essere chiari) di Paola, a cui è stata dedicata una pagina su Facebook (http://www.facebook.com/pages/Storie-di-via-Cennano/107978149244956?ref=ts), ha alcuni pregi che condivide ovviamente con molti altri scrittori: la pregevolezza della scrittura, la capacità di suscitare emozioni e quella, veramente eccellente, di rendere familiare il suo mondo da bambina anche al lettore più lontano e alieno. Ma ha anche un altro pregio che invece condivide con pochi, forse pochissimi contemporanei e tra poco con nessun altro. Perché lei è uno dei nostri ultimi scrittori che possa narrare in prima persona delle prime e fondamentali esperienze di vita che una volta i bambini facevano direttamente sulla strada. Tra qualche anno infatti, chiunque da noi si impegnerà in una simile impresa, potrà farlo solo per sentito dire, perché pochi anni dopo le esperienze di Paola, ossia negli anni ’40-’50 del passato secolo, quel mondo o, meglio, quel modo spontaneo e naturale di iniziare i bambini alla vita sociale, si è estinto senza speranza alcuna che possa essere riesumato. Perché in quegli anni, praticamente in contemporanea con tutto il mondo occidentale, non un’epoca, ma un’intera lunghissima era fu definitivamente archiviata. Un’era iniziata centinaia di migliaia di anni prima con l’apparizione della nostra specie sulla faccia della terra, anzi milioni di anni prima, considerato che anche presso gli ominidi nostri predecessori (ma anche presso i primati attuali o addirittura presso tutti i mammiferi superiori aventi comportamento sociale o istinto gregario) i cuccioli sin dai loro primi passi si iniziavano ad un autonomo ingresso nella società proprio come ancora succedeva ai tempi di Paola bambina: associandosi spontaneamente tra loro nei giochi, nelle competizioni, nelle dispute e nelle esplorazioni, in totale autonomia e indipendenza dagli adulti.
INFANZIA PIU’ LUNGA E MENO MATURA
La rivoluzione industriale cominciata nel XVIII secolo è stato l’unico evento nell’avventura umana che possa essere paragonato a quello enorme dello sviluppo dell’agricoltura che diecimila anni fa trasformò l’uomo da nomade a stanziale e chiuse la preistoria dando inizio alla Storia. Ed è proprio la rivoluzione industriale che alla lunga ha prodotto questa enorme cesura, questo profondo cambiamento nel modo con cui i bambini venivano iniziati alla vita comunitaria. In poco più di due secoli il fenomeno ha interessato, quale prima e quale dopo, tutti i paesi dell’Occidente, e interesserà, con la progressiva e sempre più veloce occidentalizzazione del pianeta, anche quel secondo, terzo e quarto mondo, il cui lento talvolta lentissimo se non inesistente sviluppo ha consentito la conservazione di quell’antico modo di dare ai cuccioli dell’uomo la loro primissima educazione sociale.
Certo l’infanzia durava meno, perché si maturava prima. Molti oggi pensano che fosse un male. Io, che quell’esperienza ho fatto in pieno a cominciare dai tre anni, penso invece che fosse cosa benefica, anzi fondamentale per la formazione fisica e psichica dell’infanzia e dell’adolescenza. Ma, ancorché basata su dati di fatto e sull’esperienza personalmente fatta, questa è solo la mia opinione.
I “BAMBOCCIONI”
Una cosa però è certa: il fatto che bambini e ragazzi oggi non possano più crescere liberamente nella strada, ma maturino le loro prime esperienze sociali all’interno di sorvegliatissimi ambienti per lo più artefatti, chiusi e ristretti anche quando sono all’aperto, ha indotto un allungamento indeterminato del loro periodo infantile. A ciò, o anche a ciò, forse si deve quel fenomeno crescente detto dei “bamboccioni”, di coloro ossia che a 30 o addirittura a 40 anni, riluttanti ad affrontare da soli i pericoli, i fastidi, le fatiche e i trabocchetti della “strada”, rimangono in famiglia (soprattutto a balia dalla mamma) per dormire, mangiare e soprattutto per essere serviti: lavatura, asciugatura e stiratura!, come pretendeva Totò nel “Turco napoletano”. E’ tutto da vedere se questa progressiva infantilizzazione e deresponsabilizzazione delle odierne nuove generazioni sia o meno un beneficio per loro (e anche per le loro famiglie) come per la nostra società.
Anche perché ci induce a riflettere su noi stessi e sulla società in cui siamo immersi, dobbiamo essere riconoscenti a Paola.