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Direttore responsabile Raffaella Zelia Ruscitto
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“Il secolo di Kafka” di Roberto Venuti

L'intervento del professore onorario all'inaugurazione dell'anno accademico

SIENA. Qui di seguito l’intervento del professore onorario Roberto Venuti, he ha parlato sel “secolo di Kafka”.

Signor Presidente della Repubblica, autorità intervenute, studentesse e studenti, colleghe e colleghi tutti.

Vorrei iniziare queste mie considerazioni con una citazione che non è di Kafka, ma può aiutarci a capire un momento fondamentale della storia letteraria del Novecento.

È tratta dall’Uomo senza qualità, il grande romanzo saggio scritto da un autore contemporaneo di Kafka, Robert Musil. Anche lui suddito della monarchia asburgica, nel suo romanzo descrive il declino di questo grande stato multinazionale, lacerato nella sua fase finale da conflitti interetnici, religiosi, politici e sociali. Ulrich, il protagonista, durante una passeggiata in solitudine riflette su quella che definisce la legge dell’ordine narrativo, una sorta di strumento che consente all’uomo comune di affrontare il carico di preoccupazioni della vita quotidiana e di sognare la semplicità.

Scrive Musil: «Quel semplice ordine che consiste nel poter dire: “accaduto questo, ebbe luogo quest’altro!”. Ciò che ci tranquillizza è la semplice successione, la possibilità di riprodurre l’esuberante molteplicità della vita in una sola dimensione, come direbbe un matematico; di disporre tutto ciò che è accaduto nel tempo e nello spazio lungo un filo, appunto quel famoso “filo del racconto” di cui è dunque fatto anche il filo della vita! Beato colui che può dire ‘allorché’, ‘prima che’ e ‘dopo che’!».

Si tratta, a detta di Musil, di uno sperimentatissimo «accorciamento prospettico dell’intelligenza» di cui gli uomini si servono ampiamente nella vita quotidiana. Scrive ancora: «Nel rapporto fondamentale con se stessi gli esseri umani sono prevalentemente dei narratori. […]: amano il succedersi ordinato dei fatti perché assomiglia a una necessità, e l’impressione che la loro vita abbia un “corso” li fa sentire come protetti in mezzo al caos. E Ulrich si stava accorgendo di avere smarrito quell’epos primitivo al quale la vita privata ancora si attiene, benché pubblicamente tutto sia già divenuto non-narrativo e non segua più un “filo”, ma si allarghi invece in un tessuto dall’intreccio infinito».

Ecco, Musil ci descrive con queste parole un fenomeno decisivo per la storia letteraria, il fenomeno che segna la nascita del cosidetto modernismo, di una narrativa nuova, che si allontana definitivamente dal filo rosso del racconto ordinato, una letteratura non lineare, della temporalità spezzata, della frammentarietà, dell’irruzione di elementi onirici e surreali, di figurazioni frantumate come quelle di una composizione cubista. Sono i primi decenni del Novecento, delle grandi rivoluzioni, di innovazioni tecnologiche inaudite che fanno sentire i loro effetti anche sui campi di battaglia della prima guerra mondiale, sono gli anni delle Avanguardie storiche, che danno voce a una una realtà percepita sempre di più come caotica e disordinata.

Sono le quinte che fanno da sfondo ai personaggi di Kafka, che incarnano la condizione dell’uomo che ha smarrito “il filo rosso”, «che si sente privo di ogni strumento di interpretazione del reale e si trova di fronte un universo ostile, caotico e inesplicabile».

Nei romanzi (Lo scomparso – più noto con il titolo di America , Il processo, Il castello), nei racconti, nei diari e nella corrispondenza di Kafka si apre un mondo di colpa dove l’improvviso crollare di ogni dimensione della realtà quotidiana travolge l’uomo in uno spazio assurdo di prospettive inquietanti e di paradossi angosciosi. Un mondo che spesso è stato paragonato all’incubo e al sogno con i quali ha talvolta in comune l’incoerenza, la frammentarietà, la condensazione delle immagini.

I suoi personaggi si muovono in una sfera quotidiana labirintica e per loro incontrollabile, a volte caratterizzata da una banalità disarmante, ma non per questo priva di richiami ingannevoli, di pericoli insospettati che possono anticipare l’annientamento totale.

Gregor Samsa, il protagonista della Metamorfosi, il racconto senz’altro più famoso, è un commesso viaggiatore, dimesso e insignificante, che una mattina si trova trasformato nel suo letto in un mostruoso scarafaggio. La narrazione segue il suo calvario, che lo porta a una morte lenta e inesorabile, senza che gli sia concesso di riacquistare la forma umana.

Una delle esperienze fondamentali che ci trasmettono i testi kafkiani è il senso angoscioso della vertigine, la sensazione di sprofondare in una realtà in cui l’individuo perde ogni punto d’orientamento, precipita in una condizione di sconcerto che – paradossalmente – gli fa avvertire la colpa.

Nel Processo, il suo romanzo più famoso, Josef K., un irreprensibile impiegato di banca, una mattina viene arrestato dai messi di un misterioso tribunale. Da quel momento inizia per lui un singolare processo, in cui da imputato non conosce il capo d’accusa ed è in balia di giudici sconosciuti che vivono nell’ombra e nella sporcizia di soffitte anguste, ubicate in casermoni di periferia. Resta vittima di un ingranaggio metafisico che consuma a poco a poco tutte le sue energie psichiche, sgretola la sua volontà di resistenza e lo porta infine ad essere giustiziato da due grotteschi carnefici in una cava di pietra abbandonata e deserta. Muore senza esser riuscito ad apprendere la natura della sua colpa e l’identità del misterioso tribunale, chiedendosi «Dov’era il giudice, che lui non aveva mai visto? Dov’era l’Alta Corte, davanti a cui non era mai giunto?». Nelle ultime parole del romanzo – che leggo nella versione di Primo Levi – è distillata tutta la potenza della logica kafkiana di colpa e innocenza: «Con occhi ormai spenti K vide ancora come i signori (i carnefici), guancia guancia davanti al suo volto, spiavano l’attimo risolutivo. – Come un cane! – disse, e fu come se la vergogna gli dovesse sopravvivere».

Primo Levi nella Nota che accompagna la sua traduzione del Processo definisce il romanzo «un libro saturo d’infelicità e di poesia». La sua lettura «lascia mutati: più tristi e più consapevoli di prima». E aggiunge delle parole che ci riportano – in maniera davvero toccante – al suo destino incancellabile di scampato alla barbarie nazionalsocialista. Scrive Levi: «Dunque è così, è questo il destino umano, si può essere perseguiti e puniti per una colpa non commessa, ignota, che il “tribunale” non ci rivelerà mai; e tuttavia, di questa colpa si può portare vergogna, fino alla morte e forse anche oltre».

Parole esemplari sul piano autobiografico, che ci aiutano però anche a capire la potenza evocatrice di quella grande letteratura universale di cui Kafka è un rappresentante insuperato.

«Kafka comprende il mondo (il suo, e anche meglio il nostro di oggi) con chiaroveggenza che stupisce, e che ferisce come una luce troppo intensa» sono sempre parole di Primo Levi.

Apro una parentesi, Kafka conosce da ebreo appartenente a una minoranza l’antisemitismo nelle forme legate alla convivenza di cechi, tedeschi ed ebrei nella sua città natale, Praga, ma sfugge al nazismo perché muore nel 1924 per una grave forma di tubercolosi che segna drammaticamente gli ultimi anni della sua breve esistenza, era nato nel 1883. Non sfuggirono però alla morte in campo di concentramento tutte e tre le sorelle: Valli, Ottla ed Elli.

Nel secolo che ci separa dalla sua scomparsa, avvenuta – come dicevamo – nel 1924, la fama letteraria di Kafka ha raggiunto traguardi eccezionali. Il valore estetico dei suoi testi e la loro straordinaria diffusione hanno fatto di lui un autore tradotto, commentato e studiato nella maggior parte delle lingue del mondo.

La sua presenza è tangibile e pervasiva nella cultura internazionale. Un buon numero di fotografie che lo ritraggono e soprattutto testi scritti da lui (una produzione non rilevante dal punto di vista quantitativo) e testi scritti su di lui (una massa sterminata, che cresce di anno in anno in progressione geometrica) ci segnalano in maniera evidente il successo eccezionale di questo scrittore.

Innumerevoli versioni e rielaborazioni dei suoi testi narrativi in una molteplicità di generi letterari e di adattamenti teatrali, radiofonici, cinematografici, ma anche opere musicali, figurative fino al fumetto e al cartone animato sono la testimonianza palese della sua attualità.

L’elenco dei grandi della letteratura che si sono confrontati con la sua opera è lunghissimo, ne citerò solo alcuni, sono per certi versi i rappresentanti di una cultura globale che con le loro opere hanno tessuto la trama culturale del Novecento, andando a comporre una sorta di canone ormai radicato nella coscienza di ogni lettore di buona istruzione.

Molti sono premi Nobel, altri hanno raggiunto una fama che va ben oltre i confini della loro lingua madre.

Ingeborg Bachmann, Samuel Beckett, Saul Bellow, Jorge Luis Borges, Bertolt Brecht, André Breton, Albert Camus, Elias Canetti, Paul Celan, John M. Coetzee, Friedrich Dürrenmatt, Eugène Ionesco, Milan Kùndera, Haruki Murakami, Harold Pinter, Philip Roth, Jean-Paul Sartre, Manuel Vargas Llosa.

Sette o otto di questi nomi sono premi Nobel.

E per quanto riguarda il nostro paese: Elio Vittorini, Franco Fortini, Italo Calvino, Pier Paolo Pasolini Dino Buzzati, Tommaso Landolfi, Eduardo Sanguineti, Primo Levi.

Per il cinema ricordo solo due nomi Orson Welles e Federico Fellini.

A questo punto, avviandomi verso la conclusione, vorrei richiamare due figure intellettuali del Novecento italiano, esemplari per l’attività svolta nei loro campi d’azione e di pensiero, che si sono confrontate con l’opera di Kafka in modi diversi, ma entrambe – come dire – hanno dato testimonianza della presenza importante dello scrittore praghese nel nostro panorama culturale.

Si tratta di Antonio Cassese e Franco Fortini. Costituiscono due esempi tra i tanti che si potrebbero proporre.

Il primo – giurista, professore di diritto internazionale e giudice – si è occupato principalmente di diritti umani e ha ricoperto cariche importanti come ad esempio la presidenza del Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia.

È autore di un libro, intitolato significativamente Kafka è stato con me tutta la vita. Rappresenta una sorta di testamento spirituale che raccoglie una serie di riflessioni maturate in quello che, riprendendo Montaigne, Cassese definisce il suo “retrobottega”, lo spazio del “riposo mentale”. Lo studio degli scritti dell’autore praghese gli consente di riflettere sul tema dell’espiazione e della colpa secondo una prospettiva squisitamente autobiografica. Sono le riflessioni di un intellettuale nostro contemporaneo che ha creduto nella legge e nel diritto e si è confrontato quotidianamente con la distruttività del male, sempre latente e pronta ad esplodere in qualsiasi momento della vita e della storia:

«Il fascino che emana dall’opera di Kafka – scrive Cassese – emana dalla sua capacità di esprimere l’irrequietudine disperata in termini così universali, che ognuno di noi leggendolo vede nei suoi racconti il riflesso delle proprie incertezze e fragilità. Kafka esprime per immagini quel senso profondo di inquietudine per l’incomprensibilità del mondo che ci accomuna. Quel che stupisce è come sia riuscito a trasformare la sua sofferenza in immagini e situazioni universali. Immagini, stati d’animo, situazioni, ma non personaggi, perché in Kafka non trovate mai un personaggio compiuto. Le figure umane si rompono in mille frammenti, si trasformano, svaniscono. Restano gli stati d’animo».

La lettura di Cassese coglie in maniera “spontanea”, lo dico tra virgolette, un tema importante su cui la critica ha appuntato a più riprese il suo interesse.

Quello del particolarissimo potere evocativo delle immagini kafkiane, del suo realismo fantastico che sorretto da una scrittura cristallina approda all’incompiuto, al frammento, elevato a principio di poetica.

Franco Fortini, poeta, traduttore e critico letterario, che ha insegnato per molti anni nelle aule della nostra università, già in un saggio del lontano 1949, individuava con gesto sicuro la specificità della scrittura kafkiana e delineava un filone esegetico che giunge fino ai nostri giorni. Riflettendo sul «carattere cifrato della pagina kafkiana, caparbiamente costruita come una parabola, una similitudine, un apologo o come il frammento incomprensibile di un testo perduto», affermava lucidamente: «il carattere di parabola di questi libri chiede un commento perpetuo che a poco a poco si incrosti nel testo medesimo ed entri progressivamente a farne parte, come è accaduto a tanti testi antichi e soprattutto, nella cultura ebraica, al Testamento. L’atteggiamento di sempre nuova domanda, che è del lettore-critico di fronte alla ambiguità del testo kafkiano, è previsto e richiesto dall’autore – come lo prevedevano i suoi antenati talmudisti – perché quell’atteggiamento fa parte del rituale». L’ineguagliata creatività kafkiana pretende quindi un’interpretazione infinita, un’esegesi inesauribile, perché – scrive Fortini – «la sua attitudine fondamentale è lontana dalla “conclusione” alla quale ci hanno avvezzi a riconoscere la natura poetica».

Capire Kafka continuerà dunque ad essere un compito inesauribile.

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