di Gianni Basi
SIENA. Certo che raccontare dei grandi interpreti in scena agli eventi chigiani è come ammirare dall’alto vette immacolate, una più bella dell’altra…
Prendiamo Salvatore Accardo. Appena tredicenne si esibiva in pubblico suonando tutti e 24 i Capricci di Paganini in una sola serata, e restando tuttora fra i pochi a saperlo fare. Roba da matti. Senza contare che poi, a 16 anni suonati, e suonati bene, vinceva il Concorso Internazionale proprio in Accademia Chigiana. Quindi, di lì a poco, il “Paganini” a Genova con in spalla lo stesso Guarneri del Gesù appartenuto al diabolico Niccolò, sino agli anni recenti quando, dopo aver fondato nell’86 l’Accademia Stauffer e nel ‘92 l’Accardo Quartet, ha creato nel ‘96 l’Orchestra da Camera Italiana e con mille altre iniziative si è dato ad aiutare i giovani musicisti e i nuovi talenti. Una carriera invidiabile, e altamente onorevole, che gli ha assegnato un’infinità di riconoscimenti, compresi i prestigiosi premi “Leonardo” e “Qualità Italia” ricevuti nel 2000 in Quirinale confermandosi uno dei più apprezzati violinisti di sempre.
Fare un salto all’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore, alle 21,30 di giovedi 6 agosto, per ascoltarlo in Brahms e Beethoven, sarà l’occasione non solo di conoscere un grande artista ma anche di godere della bravura di due altri eccezionali interpreti, Bruno Giuranna alla viola e Antonio Meneses al violoncello, che assieme a lui comporranno un terzetto unico. Con questi tre amanti dell’”architettura” più dolce che il classico puro abbia prodotto, supportati altresì da ottimi allievi dei corsi di perfezionamento (appena sabato scorso é stata premiata in composizione, col “Banca Monte dei Paschi di Siena”, la giovane Daniela Terranova: gli allievi sono il vero motore chigiano), la 78^ Estate dell’Accademia senese entra nella sua sesta giornata di concerti.
A Monte Oliveto Maggiore l’apertura prevede il “Sestetto n.2 in sol maggiore op.36” di Johannes Brahms e, a seguire, il “Quintetto in do maggiore op.39” di Ludwig van Beethoven. Come sempre è successo (e succederà) per chi fa musica, un brano non viene mai “inventato” per caso. Di solito si pensa a qualcuno o a qualcosa, ma basta anche un fruscio, una goccia di pioggia, un tuono, e ci si illumina. Brahms, in questo sestetto, ebbe in mente il suo primo grande amore, Agathe von Siebold, ma, al contempo, una qualche parte la fece anche la passione barbina che discretamente sempre nutrì per Clara, moglie dell’amico Schumann. Ne nacque perciò una musica controversa, tra il lacerante e il gioioso, seppure rilucente di perfezione stilistica. Ma la sofferenza si sente e, su tutto, prevale il senso incallito del suo ostinarsi a restare “single”, cosa di cui non seppe mai se rallegrarsi o pentirsene. Di Beethoven e il suo quintetto -stranamente l’unico per archi, ne scrisse un altro ma solo per piano e fiati- notiamo al contrario un clima disteso e di un’inventiva così frizzante di cui l’autore stesso sembra compiacersi. Ci sarà stato un amore nascosto?, la vincita del lotto di una volta che al minimo era un cavallo e al massimo un castello?, oppure, a Bonn, era solo una bellissima giornata?
Due giorni dopo questo concerto così ricco di emozioni con Accardo Giuranna e Meneses (che assieme ad altri notevoli interpreti ascolteremo anche nella serata di lunedi 10 agosto in Sant’Agostino rinviando a quella data ulteriori profili dei protagonisti), passiamo al concerto di sabato 8 agosto che avrà come scenario l’Abbazia di San Galgano, tempio di spettacoli estivi ed ora di chiusura, con Ivano Fossati, di una eccellente stagione multi-concertistica di OperaFestival. Ma, prima, un suggerimento a quanti, giovedi, andranno a Monte Oliveto: in questa antica e maestosa abbazia c’è un chiostro che non si può non visitare. Dunque anticipate quel tanto il momento musicale e andatevi ad ammirare le opere curiosissime di Luca Signorelli e Antonio Bazzi (“Il Sodoma”). Si tratta di affreschi quattro-cinquecenteschi illustrati da discalie esplicative che alternano sacre similitudini a profanità piccanti: un esempio lampante di quanto la storia, i tempi, l’umanità non facciano che ripetersi, si abbia tra le mani un’alabarda, una corona, una croce o un computer…
E veniamo a San Galgano Ore 22). Magnifica abbazia, senza dubbio fra le più meravigliosamente strane al mondo col suo tetto scoperto e quell’aria harrypotteresca cui si addice il motto della scuola dei ben noti maghetti, che recita “draco dormiens numquam titillandum” (non fare il solletico al drago che dorme). San Galgano la mitica, la magica, la bella che più bella non si può. In questo luogo fatato, tra campi di girasoli e spade nelle rocce, Boris Davidovi? Belkin, come quasi sempre fa (e probabilmente ama di suo) suonerà con un fiammante violino assieme alla Sofia Festival Orchestra e al suo veterano e inossidabile direttore Alipi Naydenov. In cartellone la “Marcia Slava op.31” di ?hajkowskij e due partiture di Brahms, il “Concerto in re maggiore op.77” e il “Quartetto n.1 in sol minore” (con orchestrazione di Arnold Schoenberg). La “Marcia” di ?hajkowskij fu scritta nel 1876 al fine di destinare fondi ai soldati sopravvissuti al conflitto serbo-turco. Tra spunti di folklore e passi gonfi di spirito nazionalistico, esplode nei toni festosi conclusivi e ricorda le atmosfere della composizione successiva, la famosa “Ouverture 1812” scritta per celebrare la ritirata napoleonica dalla Russia che culmina con rintocchi solenni di campane e, soprattutto, con cannoneggiamenti veri ma possibili solo in grandi spianate (oggi come oggi la Boston Orchestra mette in scena il concerto in riva a un fiume, e l’Accademia Musicale Militare di Camberra si avvale dei vasti dintorni della caserma). Il romantico e patriottico ?hajkowskij, che le cose in grande le faceva eccome, ci riserverà comunque un assaggio di “grande madre Russia” nell’apoteosi finale di sabato, quantomeno con il fragore poderoso delle note dell’inno zarista. Il brano seguente, il concerto in re di Brahms, è considerato un capolavoro assoluto. Creativo, lirico, espressivo. In una parola, seducente. A scriverlo è infatti un Brahms in formissima, che sa equilibrare con sapienza il dialogo tra orchestra e solista. Boris Belkin ci darà sotto a cominciare dall’attacco all’arma bianca non appena inserirà il suo archetto nel fermento orchestrale, uscendone e poi rientrandone con la disinvoltura dominante del gatto che gioca col topo. Più meditato, intimista, compatto, il quartetto per piano ed archi che si ascolterà in chiusura di serata, reso molto più sciolto dalla rivisitazione di Schoenberg e dall’abilità della bacchetta di Alipi Naydenov e dei maestri della giovane e versatile orchestra bulgara. Belkin, un grandissimo, (e anche assai simpatico, lo salutammo anni fa dopo uno strepitoso San Galgano mentre in camerino faceva cin cin con un bicchierino di vodka) è in campo dal 1972, quando vinse il Concorso Nazionale Sovietico. Poi, nelle sale e teatri del mondo a suonare il migliore repertorio cameristico assieme in particolare agli amici Bashmet e Maisky, e invitato incessantemente da bacchette come Bernstein, Rattle, Gelmetti, Chung, Muti, Aschenazy, Terminakov -citandone solo alcuni- per fare da primo violino nelle loro orchestre. Docente di vecchia data, come Accardo, ai corsi estivi dell’Accademia Chigiana, Belkin è ormai con lo stesso Accardo un pupillo del pubblico senese e, probabilmente, il preferito da San Galgano in persona. Perché mai, se non per la comodità di vederlo e sentirlo meglio, credete abbia fatto in modo che il tetto dell’abbazia si scoperchiasse? Magari si gusta Belkin da lassù, col drago che gli svolazza attorno ben desto e ormai accanito melomane.
SIENA. Certo che raccontare dei grandi interpreti in scena agli eventi chigiani è come ammirare dall’alto vette immacolate, una più bella dell’altra…
Prendiamo Salvatore Accardo. Appena tredicenne si esibiva in pubblico suonando tutti e 24 i Capricci di Paganini in una sola serata, e restando tuttora fra i pochi a saperlo fare. Roba da matti. Senza contare che poi, a 16 anni suonati, e suonati bene, vinceva il Concorso Internazionale proprio in Accademia Chigiana. Quindi, di lì a poco, il “Paganini” a Genova con in spalla lo stesso Guarneri del Gesù appartenuto al diabolico Niccolò, sino agli anni recenti quando, dopo aver fondato nell’86 l’Accademia Stauffer e nel ‘92 l’Accardo Quartet, ha creato nel ‘96 l’Orchestra da Camera Italiana e con mille altre iniziative si è dato ad aiutare i giovani musicisti e i nuovi talenti. Una carriera invidiabile, e altamente onorevole, che gli ha assegnato un’infinità di riconoscimenti, compresi i prestigiosi premi “Leonardo” e “Qualità Italia” ricevuti nel 2000 in Quirinale confermandosi uno dei più apprezzati violinisti di sempre.
Fare un salto all’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore, alle 21,30 di giovedi 6 agosto, per ascoltarlo in Brahms e Beethoven, sarà l’occasione non solo di conoscere un grande artista ma anche di godere della bravura di due altri eccezionali interpreti, Bruno Giuranna alla viola e Antonio Meneses al violoncello, che assieme a lui comporranno un terzetto unico. Con questi tre amanti dell’”architettura” più dolce che il classico puro abbia prodotto, supportati altresì da ottimi allievi dei corsi di perfezionamento (appena sabato scorso é stata premiata in composizione, col “Banca Monte dei Paschi di Siena”, la giovane Daniela Terranova: gli allievi sono il vero motore chigiano), la 78^ Estate dell’Accademia senese entra nella sua sesta giornata di concerti.
A Monte Oliveto Maggiore l’apertura prevede il “Sestetto n.2 in sol maggiore op.36” di Johannes Brahms e, a seguire, il “Quintetto in do maggiore op.39” di Ludwig van Beethoven. Come sempre è successo (e succederà) per chi fa musica, un brano non viene mai “inventato” per caso. Di solito si pensa a qualcuno o a qualcosa, ma basta anche un fruscio, una goccia di pioggia, un tuono, e ci si illumina. Brahms, in questo sestetto, ebbe in mente il suo primo grande amore, Agathe von Siebold, ma, al contempo, una qualche parte la fece anche la passione barbina che discretamente sempre nutrì per Clara, moglie dell’amico Schumann. Ne nacque perciò una musica controversa, tra il lacerante e il gioioso, seppure rilucente di perfezione stilistica. Ma la sofferenza si sente e, su tutto, prevale il senso incallito del suo ostinarsi a restare “single”, cosa di cui non seppe mai se rallegrarsi o pentirsene. Di Beethoven e il suo quintetto -stranamente l’unico per archi, ne scrisse un altro ma solo per piano e fiati- notiamo al contrario un clima disteso e di un’inventiva così frizzante di cui l’autore stesso sembra compiacersi. Ci sarà stato un amore nascosto?, la vincita del lotto di una volta che al minimo era un cavallo e al massimo un castello?, oppure, a Bonn, era solo una bellissima giornata?
Due giorni dopo questo concerto così ricco di emozioni con Accardo Giuranna e Meneses (che assieme ad altri notevoli interpreti ascolteremo anche nella serata di lunedi 10 agosto in Sant’Agostino rinviando a quella data ulteriori profili dei protagonisti), passiamo al concerto di sabato 8 agosto che avrà come scenario l’Abbazia di San Galgano, tempio di spettacoli estivi ed ora di chiusura, con Ivano Fossati, di una eccellente stagione multi-concertistica di OperaFestival. Ma, prima, un suggerimento a quanti, giovedi, andranno a Monte Oliveto: in questa antica e maestosa abbazia c’è un chiostro che non si può non visitare. Dunque anticipate quel tanto il momento musicale e andatevi ad ammirare le opere curiosissime di Luca Signorelli e Antonio Bazzi (“Il Sodoma”). Si tratta di affreschi quattro-cinquecenteschi illustrati da discalie esplicative che alternano sacre similitudini a profanità piccanti: un esempio lampante di quanto la storia, i tempi, l’umanità non facciano che ripetersi, si abbia tra le mani un’alabarda, una corona, una croce o un computer…
E veniamo a San Galgano Ore 22). Magnifica abbazia, senza dubbio fra le più meravigliosamente strane al mondo col suo tetto scoperto e quell’aria harrypotteresca cui si addice il motto della scuola dei ben noti maghetti, che recita “draco dormiens numquam titillandum” (non fare il solletico al drago che dorme). San Galgano la mitica, la magica, la bella che più bella non si può. In questo luogo fatato, tra campi di girasoli e spade nelle rocce, Boris Davidovi? Belkin, come quasi sempre fa (e probabilmente ama di suo) suonerà con un fiammante violino assieme alla Sofia Festival Orchestra e al suo veterano e inossidabile direttore Alipi Naydenov. In cartellone la “Marcia Slava op.31” di ?hajkowskij e due partiture di Brahms, il “Concerto in re maggiore op.77” e il “Quartetto n.1 in sol minore” (con orchestrazione di Arnold Schoenberg). La “Marcia” di ?hajkowskij fu scritta nel 1876 al fine di destinare fondi ai soldati sopravvissuti al conflitto serbo-turco. Tra spunti di folklore e passi gonfi di spirito nazionalistico, esplode nei toni festosi conclusivi e ricorda le atmosfere della composizione successiva, la famosa “Ouverture 1812” scritta per celebrare la ritirata napoleonica dalla Russia che culmina con rintocchi solenni di campane e, soprattutto, con cannoneggiamenti veri ma possibili solo in grandi spianate (oggi come oggi la Boston Orchestra mette in scena il concerto in riva a un fiume, e l’Accademia Musicale Militare di Camberra si avvale dei vasti dintorni della caserma). Il romantico e patriottico ?hajkowskij, che le cose in grande le faceva eccome, ci riserverà comunque un assaggio di “grande madre Russia” nell’apoteosi finale di sabato, quantomeno con il fragore poderoso delle note dell’inno zarista. Il brano seguente, il concerto in re di Brahms, è considerato un capolavoro assoluto. Creativo, lirico, espressivo. In una parola, seducente. A scriverlo è infatti un Brahms in formissima, che sa equilibrare con sapienza il dialogo tra orchestra e solista. Boris Belkin ci darà sotto a cominciare dall’attacco all’arma bianca non appena inserirà il suo archetto nel fermento orchestrale, uscendone e poi rientrandone con la disinvoltura dominante del gatto che gioca col topo. Più meditato, intimista, compatto, il quartetto per piano ed archi che si ascolterà in chiusura di serata, reso molto più sciolto dalla rivisitazione di Schoenberg e dall’abilità della bacchetta di Alipi Naydenov e dei maestri della giovane e versatile orchestra bulgara. Belkin, un grandissimo, (e anche assai simpatico, lo salutammo anni fa dopo uno strepitoso San Galgano mentre in camerino faceva cin cin con un bicchierino di vodka) è in campo dal 1972, quando vinse il Concorso Nazionale Sovietico. Poi, nelle sale e teatri del mondo a suonare il migliore repertorio cameristico assieme in particolare agli amici Bashmet e Maisky, e invitato incessantemente da bacchette come Bernstein, Rattle, Gelmetti, Chung, Muti, Aschenazy, Terminakov -citandone solo alcuni- per fare da primo violino nelle loro orchestre. Docente di vecchia data, come Accardo, ai corsi estivi dell’Accademia Chigiana, Belkin è ormai con lo stesso Accardo un pupillo del pubblico senese e, probabilmente, il preferito da San Galgano in persona. Perché mai, se non per la comodità di vederlo e sentirlo meglio, credete abbia fatto in modo che il tetto dell’abbazia si scoperchiasse? Magari si gusta Belkin da lassù, col drago che gli svolazza attorno ben desto e ormai accanito melomane.