di Lorenzo Pini
PISA. L’incontro con il giornalista de Il Manifesto slitta di mezz’ora (colpa dei treni) e comincia con il trafelato rituale di chi vuole affrancarsi dal ritardo: il cappotto appeso al muro, un giro veloce e via la sciarpa al collo, «posso aprire la finestra?», mentre nell’aula all’ultimo piano della facoltà di Lettere a Pisa tutto faceva meno che caldo.
Ha ancora senso scrivere reportage di viaggio?
Una volta si scrivevano pezzi che raccoglievano molteplici punti di vista, sociale, antropologico, storico, geografico-naturalistico, una bella insalatona mista. Oggi è necessario circoscrivere un unico argomento, la superficie terrestre è interamente conosciuta e c’è bisogno di elaborare un punto di vista non generico ma specifico.
Qual è il primo passo da compiere per chi vuole realizzare un reportage?
Documenti, fonti, informazioni sono il primo step imprescindibile, così come il linguaggio, che deve liberarsi da una retorica ridondante. Ai miei collaboratori consegno sempre un “index proibitorum verborum”: quante volte si leggono sulle riviste parole come millenario, borghetto adagiato, spazio infinito, itinerario sconosciuto, paesaggio incantevole? Per favore, lasciamo stare queste espressioni.
Crede che i reports che leggiamo sulle riviste siano attendibili?
Gli occhi pieni di mistero delle africane? C’hanno fame. La spensieratezza di certe popolazioni sudamericane? Se non ridessero si suiciderebbero tutti i giorni. “Atlante” (la rivista di geografia e viaggi per cui lavorava prima che chiudesse) era un maestro perché non faceva riferimento agli enti del turismo, raccoglieva fonti attendibili visitando i luoghi per mesi, accostando situazioni reali.
Anche la scelta del momento giusto è importante: andare adesso in Afghanistan è ingenuo e patetico. Tutti i giornalisti vi aspirano come se fosse motivo di promozione professionale. Realizzare un vero report significa andarci tra qualche anno.
Inoltre oggi qualcuno realizza reportages facendo direttamente un copia incolla dalle cose che si trovano sulla rete. È un oltraggio al lettore e al mestiere del giornalista.
Che cos’è per lei un luogo?
I luoghi non sono più una rassegna mappa alla mano. Che cosa resta alla fine? Questa è la domanda da porsi, se Internet già dice tutto. Per esempio, i borghi della Toscana: meglio una descrizione della piazza del Comune, con l’orologio, il campanile del 1220 e le botteghe artigiane o la storia di una comunità nascosta di minatori di quello stesso paese? Fuori dagli itinerari degli agriturismi esistono ruderi che parlano straordinariamente di società, della drammatica storia della mezzadria e del territorio che viene dimenticata a scapito del servizio a effetto. La parola luogo non può prescindere dalla sua storia.
Un esempio di buon reportage?
Come impostare un servizio sul ponte di Messina? Facendo un reportage su altri dieci ponti che nel mondo sono serviti moltissimo e sono stati utili per lo sviluppo, e affiancarli all’impatto del futuro ponte sullo Stretto. Berlusconi afferma che è indispensabile? Bene, noi gli facciamo vedere quali sono stati i contesti in cui sono nati altri ponti del mondo, indispensabili, e in mezzo ci mettiamo Messina. Vuoi raccontare il deserto? Non puoi. C’è bisogno di trovare un input, circoscrivere l’argomento, e necessariamente ridurlo a un caso. A Torino ho fatto un reportage sui ponteggi dei cantieri. Operai magrebini che si arrampicavano in totale assenza di imbracature su tavole di 20 cm. Dietro c’è una storia di lavoro, immigrazione, società. Le riviste Sandocan e Atlante, per le quali lavoravo fino a qualche anno fa, erano grandi contenitori di reportages. Più temi “d’assalto” e meno pagine patinate.
Qual è il senso del viaggio?
Il viaggio è presente ovunque, è dentro di noi, conta la nostra percezione. Oggi siamo a Pisa, c’è la Torre. E poi? A qualcuno potrebbe interessare un punto di vista diverso, ad esempio il carattere di questa città che non ha niente a che fare con la spocchiosa Firenze e l’altezzosa Siena. Riuscire a comunicare quest’idea attraverso un soggetto è già metà del lavoro. Non importa andare lontano, il viaggio è dentro di noi.
PISA. L’incontro con il giornalista de Il Manifesto slitta di mezz’ora (colpa dei treni) e comincia con il trafelato rituale di chi vuole affrancarsi dal ritardo: il cappotto appeso al muro, un giro veloce e via la sciarpa al collo, «posso aprire la finestra?», mentre nell’aula all’ultimo piano della facoltà di Lettere a Pisa tutto faceva meno che caldo.
Ha ancora senso scrivere reportage di viaggio?
Una volta si scrivevano pezzi che raccoglievano molteplici punti di vista, sociale, antropologico, storico, geografico-naturalistico, una bella insalatona mista. Oggi è necessario circoscrivere un unico argomento, la superficie terrestre è interamente conosciuta e c’è bisogno di elaborare un punto di vista non generico ma specifico.
Qual è il primo passo da compiere per chi vuole realizzare un reportage?
Documenti, fonti, informazioni sono il primo step imprescindibile, così come il linguaggio, che deve liberarsi da una retorica ridondante. Ai miei collaboratori consegno sempre un “index proibitorum verborum”: quante volte si leggono sulle riviste parole come millenario, borghetto adagiato, spazio infinito, itinerario sconosciuto, paesaggio incantevole? Per favore, lasciamo stare queste espressioni.
Crede che i reports che leggiamo sulle riviste siano attendibili?
Gli occhi pieni di mistero delle africane? C’hanno fame. La spensieratezza di certe popolazioni sudamericane? Se non ridessero si suiciderebbero tutti i giorni. “Atlante” (la rivista di geografia e viaggi per cui lavorava prima che chiudesse) era un maestro perché non faceva riferimento agli enti del turismo, raccoglieva fonti attendibili visitando i luoghi per mesi, accostando situazioni reali.
Anche la scelta del momento giusto è importante: andare adesso in Afghanistan è ingenuo e patetico. Tutti i giornalisti vi aspirano come se fosse motivo di promozione professionale. Realizzare un vero report significa andarci tra qualche anno.
Inoltre oggi qualcuno realizza reportages facendo direttamente un copia incolla dalle cose che si trovano sulla rete. È un oltraggio al lettore e al mestiere del giornalista.
Che cos’è per lei un luogo?
I luoghi non sono più una rassegna mappa alla mano. Che cosa resta alla fine? Questa è la domanda da porsi, se Internet già dice tutto. Per esempio, i borghi della Toscana: meglio una descrizione della piazza del Comune, con l’orologio, il campanile del 1220 e le botteghe artigiane o la storia di una comunità nascosta di minatori di quello stesso paese? Fuori dagli itinerari degli agriturismi esistono ruderi che parlano straordinariamente di società, della drammatica storia della mezzadria e del territorio che viene dimenticata a scapito del servizio a effetto. La parola luogo non può prescindere dalla sua storia.
Un esempio di buon reportage?
Come impostare un servizio sul ponte di Messina? Facendo un reportage su altri dieci ponti che nel mondo sono serviti moltissimo e sono stati utili per lo sviluppo, e affiancarli all’impatto del futuro ponte sullo Stretto. Berlusconi afferma che è indispensabile? Bene, noi gli facciamo vedere quali sono stati i contesti in cui sono nati altri ponti del mondo, indispensabili, e in mezzo ci mettiamo Messina. Vuoi raccontare il deserto? Non puoi. C’è bisogno di trovare un input, circoscrivere l’argomento, e necessariamente ridurlo a un caso. A Torino ho fatto un reportage sui ponteggi dei cantieri. Operai magrebini che si arrampicavano in totale assenza di imbracature su tavole di 20 cm. Dietro c’è una storia di lavoro, immigrazione, società. Le riviste Sandocan e Atlante, per le quali lavoravo fino a qualche anno fa, erano grandi contenitori di reportages. Più temi “d’assalto” e meno pagine patinate.
Qual è il senso del viaggio?
Il viaggio è presente ovunque, è dentro di noi, conta la nostra percezione. Oggi siamo a Pisa, c’è la Torre. E poi? A qualcuno potrebbe interessare un punto di vista diverso, ad esempio il carattere di questa città che non ha niente a che fare con la spocchiosa Firenze e l’altezzosa Siena. Riuscire a comunicare quest’idea attraverso un soggetto è già metà del lavoro. Non importa andare lontano, il viaggio è dentro di noi.
