Duccio Benocci parte dall'ultimo libro "Rampe del buon pane" per approfondire lo stile e gli intenti letterari dell'autore
di Duccio Benocci
«[…] Nessun possedere / solo un palmo di coriandoli rari […]».
Dialogo con Paolo Bartalini
Paolo Bartalini, scrittore per professione, in quanto apprezzato giornalista, ma anche poeta per passione.
Siamo di fronte ad un poeta che potremmo definire “parsimonioso”: la sua prima raccolta – Le pietre e i diamanti – a vent’anni (Lalli, 1986). D’altronde, come sosteneva il buon Benedetto Croce, e con lui poi Fabrizio De André, «a vent’anni tutti scrivono poesie […]»! Poi, a distanza di dieci anni esatti dall’esordio, Sentieri per barche (I quaderni del battello ebbro, 1996), premiata col Premio “Luca Giachi”. Infine, nel 2005, Rifugio senza uguali (LietoColle), in una bella edizione d’arte in tiratura limitata, che ha visto anche una ristampa.
Insomma, un poeta che rispetta in maniera, direi, inconsueta la parola scritta (poetica) e la sua innegabile capacità di comunicazione, e che percepisce profondamente la “responsabilità” del proprio linguaggio.
Nel nostro autore, il consumato suo mestiere, l’ancoraggio a fatti, date, dati, alla nuda cronaca, si saldano armonicamente con il nativo dono del narratore in poesia. Una delle sue peculiarità specifiche è proprio quella di nobilitare la piatta quotidianità.
Rampe del buon pane, questo il tuo ultimo libro, stampato per conto della Florence Art Edizioni: una casa editrice che, nella sua collana di poesia, sta collezionando nomi degni di interesse nel panorama letterario contemporaneo. Titolo ripreso da quello di una poesia della raccolta. Vi sorprendono gli echi deandreiani, soprattutto dell’ultimo De André. E, poi, quel brano di Georges Brassens tratto da “Auprès de mon arbre”, tradotto abbastanza fedelmente dal francese e incastonato come una gemma preziosa a mo’ di ultima strofa della suite. Quanto vi è di autobiografico in questa poesia che dà il titolo alla tua nuova raccolta? E qual è il ruolo del “pane”, anzi del «buon pane»?
“Il titolo, almeno nelle intenzioni, rimanda all’idea della fatica di essere accettati per quello che si è. Le ‘rampe’ rappresentano gli ostacoli del vivere quotidiano e il ‘buon pane’ è, invece, una sorta di traguardo, una forma di accoglienza – da qui deriva la ‘bontà’ – dopo una serie di difficoltà e disagi. La poesia ‘Rampe del buon pane’, all’interno della raccolta omonima, è suddivisa in vari movimenti. Le fasi di sofferenza, come alcuni richiami al periodo bellico, sfociano nei versi quasi liberatori di Brassens. Non a caso, la primissima stesura aveva per titolo ‘L’albero del pane’. Con l’aggiunta, successiva, del testo di un sms, vero, effettivamente inviato, a mo’ di ringraziamento a chi è capace di indicare una via. Forse è questo l’unico aspetto realmente autobiografico della sezione. Anche se naturalmente, nell’insieme della raccolta, non mancano gli echi di un vissuto personale”.
L’elemento comune a tutte le poesie raccolte in Rampe del buon pane è il fatto che ognuna è stata scritta in un momento particolare della tua vita, nell’arco temporale 1999-2012, tanto che li hai opportunamente definiti, nel sottotitolo, “Versi d’occasione”. Al termine del volumetto, due sole pagine di note ai testi permettono di comprendere meglio, di aggiungere “senso” al “senso”, di collocarli nel tempo e nello spazio, come se fossimo di fronte ad un “diario”, scritto, però, con righe che vanno spesso a capo. Questo, anche perchè l’alto livello di “lirismo” raggiunto ha portato, inevitabilmente, a sacrificare la piena e precisa comprensibilità del testo, almeno in alcune sue parti. Ad un tratto, inaspettato, in due terzine è racchiuso un significativo appello: «Ascoltate ora, ascoltateli i suoni / sono memoria di strade e paesi, / sono l’abito lasciato alla terra. // Sono la vita che picchia e rintocca / la rabbia che combatte l’oscurare / l’impronta di un’autentica lotta» (p. 22).
Che cos’è la “poesia” per Paolo Bartalini?
“La poesia è l’annotazione che si fa emozione. Catturare un’immagine diviene quasi una ‘missione’ quotidiana. Fermare l’attimo, scrivere il dato che interessa, il flash, la sequenza che in quel momento attrae e cercare quindi di trasformarla in un qualcosa di compiuto. Impresa non semplice, senza una penna e un pezzo di carta sempre pronti. Ecco perché, da 28 anni, porto sempre con me un quaderno. L’attività poetica, nel tempo, è andata avanti fra stop and go. A conti fatti, più stop che go: ho vissuto anche dei periodi di vuoto totale, testimoniati dai lunghi intervalli tra una pubblicazione e l’altra”.
«Quanti sono i poeti in Italia? […]» si domandava Eugenio Montale, nel 1950, in un suo scritto intitolato “Il partito dei poeti”, apparso sul «Corriere della Sera». «[…] Intendendosi per poeta – aggiungeva Montale – colui, o colei, che scrive e pubblica, quando può i suoi versi, la somma totale dei poeti dovrebbe essere molto alta. Ad ogni concorso si presentano centinaia di concorrenti; ad ogni redazione di rivista affluiscono montagne di manoscritti in versi».
Ebbene, secondo Bartalini, oggi, la poesia è in crisi?
“Vorrei proprio dire di no! Intorno si avverte un desidero di trasmettere piccole sensazioni che forse neppure immaginiamo. Si dice che ‘la poesia ci salverà’. Non sarà esattamente così, però la scrittura, specialmente la scrittura in versi, può rappresentare sempre una buona àncora”.
È noto che i giornali e le riviste – ad eccezione, è ovvio, di quelle specializzate – concedono poco spazio alla poesia (sia alla pubblicazione di testi, che di recensioni) e si occupano prevalentemente di altri generi artistici che sempre lo stesso Montale definiva «organizzati».
Che cosa pensi dell’attività della critica italiana riguardo agli scrittori di versi contemporanei?
“Non ho, come si dice, il polso della situazione. E quindi non è semplice rispondere. Mi sembra di riscontrare, però, in generale, una maggiore attenzione nei confronti di chi si dedica alla poesia. Non sono mancati passi in avanti ad opera della critica”.
Torniamo al libro. Noto, in Rampe del buon pane, una scrittura visionaria, costellata di vere e proprie “illuminazioni”. Piacevole risulta il tuo discorrere in versi, tale da far apparire il tutto – lo sostenevo, poco fa, nell’introduzione – come una “narrazione” in poesia. Colpiscono proprietà di linguaggio e selezione sapiente del lessico (come scrivi, a p. 9: «Vocabolario base dello studio / per conoscere e smetter di subire / perchè imparare sia giusto preludio / nella scoperta delle nuove mire»): in particolare, mi riferisco all’uso di parole colte, inusuali o desuete, toscane, di gergo calcistico, oltre che di alcuni preziosi arcaismi.
Vi emergono, poi: impiego familiare dell’endecasillabo, qualità delle rime scelte e dell’aggettivazione, presenza di figure retoriche più o meno articolate (come: ripetizioni anaforiche, allitterazioni, frequenti enjambement, qualche ossimoro), originalità delle chiuse e della chiusa finale. Nonché, il ricorso a forme “chiuse” come l’ottava, forma espressiva popolare, metro classico per narrare in versi, che, come noto, affonda le proprie radici nella notte dei tempi, ma che tu, talvolta, tratti con totale libertà e fuori dai canoni imposti dalla tradizione toscana e ariostesca.
Nella letteratura italiana recente abbondano forme estreme di “stilizzazione”, “cristallizzazioni identitarie” che servono allo scrittore a rendersi meglio riconoscibile nel panorama editoriale, oltre a vari “cerebralismi”. Tutto ciò non lo percepisco nelle tue poesie, ritenendole testi ai confini tra scrittura e vita, unione indissolubile di ritmo generoso, musicalità e significato, in cui la conquista di aspetti lirici, non ti ha costretto a dover rinunciare al carattere narrativo.
Parlaci della ricerca formale che ti ha portato da Le pietre e i diamanti a Rampe del buon pane.
“La raccolta d’esordio, Le pietre e i diamanti, era l’istinto. In Sentiero per barche scelsi il verso breve e il testo fulmineo. In Rifugio senza uguali comparvero, invece, gli endecasillabi, sui quali ho insistito in Rampe del buon pane, optando però per una maggiore ‘chiarezza’, se così possiamo dire, nei singoli componimenti”.
Culto per la memoria, legame tra “micro-storia” – individuale o meno – e storia contemporanea (verrebbe da dire, Storia con la “s” maiuscola): convivono, ad esempio, due ricordi, quello affettuoso del ritrovo a 25 anni esatti dal tuo esame di maturità e quello, invece, struggente, dei tristi fatti di Reggio Emilia del 7 luglio 1960, che scandalizzarono l’Italia democristiana del tempo.
Alberto Figliolia, nella prefazione al volumetto, per definire i tuoi versi si è appuntato le seguenti espressioni, che condivido: «fra terra e ideali. Geometrie esistenziali e impegno civile […] eroismi della vita quotidiana» (p. 5).
In due poesie, hai individuato due “modelli” per te, ma non solo per te, capaci di «indicar la strada» (p. 17). «Crescono le tracce, vola il pensiero» – scrivi a p. 9 – a delineare due figure nitide nella memoria collettiva italiana: la prima, don Lorenzo Milani (Firenze, 1923 – Firenze, 1967), personaggio “controverso” della Chiesa cattolica negli anni Cinquanta e Sessanta, riferimento per il cattolicesimo impegnato nel civile e nel sociale; la seconda, padre Ernesto Balducci (Santa Fiora, 1922 – Cesena, 1992), una delle personalità di maggior spicco nella cultura del mondo cattolico italiano nel periodo che accompagnò e seguì il Concilio ecumenico Vaticano II (1962-1965). Un ritorno alle «radici» (p. 16), dunque, perchè le radici sono importanti.
Quanto hanno contato per te queste due figure?
“Ho scelto i due religiosi come autentici simboli di una strada in salita da compiere. Emarginazione, processi, pagine messe al bando… La scelta del servizio civile, a metà anni Ottanta, mi portò ad avvicinarmi ai loro scritti: da un lato L’obbedienza non è più una virtù, dall’altro La pace, realismo di un’utopia. Una strada in salita anche dal profilo della collocazione geografica dei loro luoghi di preghiera, di studio e riflessione, di insegnamento: il Mugello e la Badia Fiesolana”.
Non mancano certo gli echi letterari, analizzando i tuoi versi. Un esplicito omaggio a Dino Campana, altro celebre disubbidiente, “emarginato”, figura “controcorrente”, del quale immortali la sua (tua ?) condizione esistenziale: «solo con voi, distante da voi» (p. 14).
Quali le tue letture, gli autori preferiti o che, comunque, hanno segnato il tuo percorso di uomo e di poeta?
“Intanto non posso dire di contare su una robusta formazione letteraria. Da qualche tempo a questa parte, poi, non mi ritengo un gran lettore. Partiamo comunque dalle origini. Un giorno – ormai più di 25 anni fa – inviai dei versi ad una rivista di poesia chiedendo un giudizio. Dalla redazione mi risposero più o meno in questi termini: ‘Lei si basa su modelli poetici scontati, non va oltre l’Ungaretti dell’Allegria di naufragi’. Decisi allora di ampliare un po’ – ma non troppo – l’orizzonte, avvicinandomi prima a Sandro Penna e poi a Giorgio Caproni. In particolare ai loro ‘componimenti brevi’. Un riferimento rimane ancora oggi Il franco cacciatore di Caproni. In particolare, il testo di ‘Biglietto lasciato prima di non andare via’ era divenuto per me un piccolo manifesto: ‘Il mio viaggiare è stato tutto un restare / qua dove non fui mai’. A Dino Campana ho prestato attenzione, sì, però l’omaggio all’interno della raccolta fa parte semplicemente della schiera dei versi d’occasione. Strofe scritte quasi all’impronta, durante un viaggio in treno fra Toscana e Romagna, attraverso le piccole stazioni, tra le quali Marradi-Palazzuolo sul Senio”.
«Nella mente conservo le stazioni / tu prova un po’ a immaginare un viaggio / tra le piccole che sembrano miraggio / e quelle racchiuse nelle canzoni» (p. 18). Con questa quartina, principia la poesia intitolata “Coincidenze”: un esperimento, vero e proprio divertissement, in cui citi i cantautori (spesso per nome, con grande confidenza) ed evochi le “stazioni” celebrate nelle loro canzoni. Ed ecco scorrere, uno ad uno, “mostri sacri” della musica leggera italiana: Tenco, Augusto Daolio dei Nomadi, Piero Ciampi, Battiato, Fabrizio De André, Jannacci, Guccini, fino alla meno nota (almeno al grande pubblico) Rosa Balistreri.
Due domande. Questo testo, poi musicato da Vittorio Bonetti per il brano omonimo pubblicato all’interno dell’album “Anime marine” (2002), denota la tua competenza in campo musicale: come è nato il testo, quando ha avuto origine la passione per la musica e se vi ha influito l’attività lavorativa in radio?
Poi, vorrei una tua personale opinione in merito alle “canzoni”: le consideri “poesie” in musica, possono essere equiparate alle poesie propriamente dette, riconosciute come tali e magari anche antologizzate, o rappresentano una forma artistica “minore” rispetto alla letteratura?
“Competenza in campo musicale? Troppo buono! Diciamo che mi sento un appassionato di canzone d’autore, almeno dal giorno in cui, sui banchi della scuola media, entrai a contatto, per la prima volta, con l’universo di Fabrizio De André. In quel maggio del 1979 affrontavamo l’argomento droga e l’insegnante di Lettere, Lucia Magni Pratelli, portò in classe per un’audizione Tutti morimmo a stento. Ascoltammo ‘Cantico dei drogati’, di De André-Mannerini, e ‘Recitativo’. Il lavoro in radio non ha influito più di tanto. Tra l’altro per Radio Rosa curo esclusivamente la parte informativa, non quella musicale.
La canzone può essere letteratura, può avere pari dignità rispetto alla poesia propriamente detta. Ricordo un articolo di Gianni Mura, anni fa, sulle pagine de «la Repubblica». Il giornalista sosteneva, giustamente, che in Francia i Brel, i Brassens e i Ferré hanno un posto tra i grandi della letteratura come i Baudelaire, i Rimbaud e gli Aragon. Adesso è così anche da noi, sosteneva Mura, nel senso che i nostri cantautori trovano, sì, un giusto spazio sulle antologie scolastiche. Ma prima i De André, i Guccini, i Vecchioni e i Ciampi erano stati a lungo ‘sbertucciati’ – utilizzò proprio questo verbo – dalla critica. Questo è un altro tema che, se vogliamo, si lega al titolo Rampe del buon pane, a un’idea di accettazione, o di riscatto, dopo un periodo di disapprovazione se non di autentica emarginazione. Con il testo ‘Coincidenze’ ho voluto poi rimarcare il tragitto di alcuni dei componenti del mio modesto Pantheon della canzone d’autore, collegandomi a luoghi della memoria raggiunti o sfiorati durante certi viaggi. Tutto ebbe origine durante le varie edizioni della manifestazione ‘La cultura del treno’, a Certaldo”.
«Il rosso, il giallo, dipinto un leone: / lo capite, fratelli del pallone?» (p. 25). Stai parlando, naturalmente, di un’altra tua grande passione: l’Unione Sportiva Poggibonsi Calcio, oggi nel girone E di serie D. E in alcune composizioni passi in rassegna alcune sue “punte”, «eroi in miniatura / di domeniche piene» (p. 28): Stefano Lotti, il centrocampista prematuramente scomparso (a cui, tra l’altro, è stato intitolato lo Stadio comunale di Poggibonsi), l’attaccante Manuel Pera, goleador cui dedichi un acrostico di rara bellezza, il difensore Manuel Machetti dalle molte maglie. Uguali attenzioni son dedicate ad Alessandro Signorini, Luciano Chiarugi e Claudio Sala. Non bastava aver scritto di loro puntuali articoli, cronache delle loro performances sportive, averne parlato e averci, magari, dialogato alla radio (con questi “leoni”); occorreva anche celebrarli, consegnarli alla memoria indelebile costituita dal linguaggio poetico.
Apro una parentesi per chiuderla subito, affermando che occuparsi per lavoro, per professione, di ciò che interessa – nel tuo caso, prevalentemente, di sport, almeno per quanto riguarda la carta stampata – non ha prezzo!
Il calcio, sport nazionale per eccellenza non solo nel nostro paese, per te passione e nutrimento, come tema ha ispirato davvero tanta letteratura: tralasciando le molte pagine in prosa, penso ai testi concepiti da poeti “laureati” come Umberto Saba (nelle sue “Cinque poesie sul gioco del calcio”) o Vittorio Sereni (in “Domenica sportiva”), ma anche a Fernando Acitelli. «Raccogliere scritti sul calcio – ha scritto Sandro Veronesi – è un po’ come raccogliere conchiglie in riva al mare: ne trovi sempre, ogni mareggiata ne porta di nuove, e ciascuno se ne può sbalordire come fosse la prima volta».
Come poeta, ritieni che calcio e letteratura, in Italia, possano avere un rapporto serio e consolidato?
“Vorrei spingermi oltre e affermare che il calcio è letteratura! Al tempo di Sentiero per barche, la mia seconda silloge, mi capitò di ‘spiazzare’ perfino il grande Alessandro Parronchi. Avvenne durante una lettura di versi nei quali menzionavo en passant la vicenda calcistica e umana di Agostino Di Bartolomei, il capitano della Roma dello scudetto morto suicida nel 1994. In un passaggio di quella poesia (‘la divisa di Tino nella polvere di periferia’), il professor Parronchi individuò una storia di guerra e invece l’ambientazione era di tipo calcistico. Il riferimento era alla divisa nei capelli, in contrapposizione ai codini e alle creste delle capigliature di oggi o di un passato recente. Nel calcio è esistito perfino ‘il poeta del gol’: così i tifosi del Torino negli anni Settanta avevano soprannominato Claudio Sala. E le gesta di Claudio Sala sono racchiuse ora in ‘Concrete chimere’, un componimento in ottave all’interno di Rampe del buon pane che rimanda ad una lettura nel corso di un appuntamento al Politeama di Poggibonsi. Era l’iniziativa ‘Versi, traverse e traversie’, ideata da Dario Ceccherini e dedicata quel giorno al tema ‘La solitudine dell’ala destra’. Era presente anche Luciano Chiarugi, campione d’Italia nella Fiorentina del 1968-1969 e all’epoca allenatore del Poggibonsi. ‘Concrete chimere’ è una poesia su commissione, più che d’occasione”.
In conclusione, se dovessi fornire un profilo veridico dell’amico Paolo, inizierei col dire che è una persona di una timidezza e una modestia proverbiali; personaggio sostanzialmente schivo, sfuggente, introverso, ma assai sensibile, umano e altruista… una figura, insomma, assai diversa da quelle imposteci dalla società «nella fanghiglia di quest’era», come avrebbe detto lui.
Eppure, proprio come l’“albatro” di Baudelaire, è capace di raggiungere – e prova tangibile ne sono le sue raccolte di poesia – vette impensabili, con eleganza estrema e maestosità, grazie al dono che ha ricevuto: il dono della parola!
Per dirla con parole sue, dal tono sommesso: «[…] Nessun possedere / solo un palmo di coriandoli rari […]».
Paolo Bartalini, Rampe del buon pane. Versi d’occasione: 1999-2012, prefazione di Alberto Figliolia, Firenze, Florence Art Edizioni