di Giulia Tacchetti
SIENA. L’intento della regia di rendere comprensibile agli spettatori il testo di P.P.Pasolini “Porcile”, privilegiando la via del racconto per narrare la decadenza tragica di una famiglia borghese della Germania post-nazista, raggiunge l’obiettivo. Binasco con la sua esperienza e sensibilità supera ogni incertezza nell’affrontare una icona sacra (1966 esce il lavoro teatrale, 1969 il film), una leggenda, contrariamente a quanto avrebbe voluto Pasolini. Nella sua rilettura “Porcile” diventa una commedia umana, piena di sentimenti e di calore umano, così si esprime il regista durante un’intervista su Radio Città Futura. Ci potremmo chiedere se questo è un punto di vista poco appropriato. La tematica della corporalità ed il rilancio della dimensione privata hanno in Pasolini il valore di una forma estrema e radicale di politicità e opposizione, l’ultima ancora possibile. Essa esprime un disperato tentativo di scandalo dentro il meccanismo del consenso e spesso si unisce ad un atteggiamento caustico nei confronti del pubblico. Nella rilettura di Binasco in parte questo manca, proprio per rendere più fruibile la rappresentazione. Allontanarsi da una interpretazione strettamente osservante, altri registi hanno puntato soprattutto sulla componente politica, grottesca e sperimentale, non vuol dire tradire il testo (da una nota della regia), ma permettere agli spettatori un viaggio ed una identificazione. Quindi nella rilettura viene adottato il punto di vista dei genitori, vittime come Ida, la fidanzatina, di Julian (F. Borchi), triste e depresso, né obbediente, né disobbediente, che nel tentativo di estraniarsi dalla famiglia e dalla omologazione dell’ambiente ricco borghese coltiva un insano amore per i maiali, con cui intrattiene rapporti carnali. La madre (V. Banci) si mostra carnale e calibrata nei suoi rapporti con il figlio. Un crocifisso appeso al collo ondeggia, come ad alludere ad una imminente vendetta divina. Il padre (M. Malinverno) appare nevrastenico per gli atteggiamenti incomprensibili di Julian, strepitante e stralunato. Ida è l’unico segno di purezza e di futuro. Julian diventa portavoce della poesia pasoliniana con il suicidio finale: suicidio tragico di un giovane, che scopre di avere dentro di sé la mostruosità. “Nemmeno un dito, una ciocca di capelli, un bottone…Ssssst, tranquilli, non è successo niente.” Sarà la versione ufficiale di Herdhitze (F.Cauteruccio), ex assassino nazista in affari con il padre, che così commenta la morte di Julian mangiato dai maiali.
La scenografia pittorica (L. Banci) è uno spazio pulito, spoglio, razionale, lieve, con uno sfondo sbiadito di archi e alberelli. La musiche (A. Annecchino) suonano sommesse, mentre i costumi in bianco e nero (S. Cardini) esaltano la tragicità dello spazio. La compagnia di attori fissi (Teatro Metastasio Stabile della Toscana/ Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia) risulta affiatata e meritevole degli applausi finali da parte di un pubblico soprattutto giovane.