Diretta da Michele Placido, ritorna in una commedia del Premio Nobel
di Giulia Tacchetti
SIENA. Ormai con una certa consuetudine attori conosciuti attraverso la TV o il cinema si cimentano con il teatro, dando prove non sempre all’altezza, anche perché manca il supporto di una scuola di recitazione. Ambra Angiolini da soubrettina televisiva ne ha fatta di strada, affrontando con coraggio ruoli sempre più impegnativi sia al cinema (“La scelta” con la regia di Michele Placido) che al teatro. Dai “Pugni chiusi” di M. Bellocchio ad oggi si nota che il sodalizio con M. Placido, regista della pièce, ha prodotto risultati positivi “ …Lavorando con lui ho capito che si può acquisire una professionalità solida anche facendo un percorso non lineare e consueto”.
Emma, due anni dopo la fine della loro relazione, incontra Jerry (un credibile Francesco Scianna) per comunicargli che Robert, suo marito, l’ha tradita. I due cominciano a ricordare la loro storia d’amore, che si dipana a ritroso in nove scene, in un lungo flashback, dal 1977 al 1968, quando incomincia il loro rapporto. La donna lavora come manager in una galleria d’arte e cerca di dare un senso alla propria vita, fuggendo da un matrimonio più noioso che infelice , con Jerry, agente letterario e scrittore, ingenuo e infantile, sposato a sua volta. Alla lunga il loro rapporto si rivela vuoto e sterile. Robert, di mestiere editore, è il personaggio più riuscito anche per la sottile ed accurata interpretazione di Francesco Biscione: perspicace ed arguto, si accorge del tradimento della moglie con il suo migliore amico e con intelligenza la induce a confessare, ma non dirà mai niente a Jerry, accettando di far parte di quel fiume che scorre in maniera inesorabile che si chiama destino.
Il centro della rappresentazione è il “tradimento”, che va al di là del suo significato riferito solo alla sfera sessuale e sentimentale e coinvolge tutta la nostra esistenza, fondata sull’ipocrisia. L’inganno spinge lo spettatore a chiedersi quali siano i confini tra il vero ed il falso. Quello che colpisce è il modo educato con cui i personaggi si affrontano e l’affetto che esternano quando parlano dei figli dell’altro, si pensi al ricordo di Jerry quando giocava con la figlia di Emma, che si mescolano con la doppiezza e la bassezza dell’essere umano. Ne nasce un senso dell’assurdo, che è lo scopo dell’autore. Il testo è del 1978, anni in cui la contestazione aveva distrutto le regole, svelando una misera società borghese. Il nastro della storia dei personaggi si riavvolge in un brutale viaggio nel tempo alla ricerca di un’identità strutturata in ricordi. La scrittura moderna di Pinter si avvale delle tecniche narrative tipiche del Novecento: la mancanza di unità di tempo e luogo, la narrazione in flashback, la scena unica in cui si svolge tutta la narrazione (per indicare il tempo la regia si avvale di tre specchi su cui viene proiettato lo scorrere degli anni), i dialoghi serrati e stringati, che mettono alle strette il personaggio. Unico appunto la musica (Luca D’Alberto) non tanto per la scelta dei brani, quanto per il volume elevato che non rende fruibile il passaggio delle scene.