di Gianni Basi
SIENA. Dopo il successo dei concerti di Salvatore Accardo e Bruno Giuranna assieme agli allievi chigiani (i bravissimi Francesca Dego, Jonian Ilia Kadsha e Pavel Guerchovich ai violini, Giuseppe Russo Rossi, Daniel Palmizio ed Elena Faccani alle viole e Mexim Ganz e Paolo Bonomi ai violoncelli), siamo dunque al penultimo appuntamento dell’Estate Musicale Chigiana.
Fosse stato l’ultimo, quello che sarà in scena mercoledì prossimo, l’aria del Gianni Schicchi “oh mio babbino caro” sarebbe calzata a pennello. Perché, come annunciato dal nostro giornale, Salvatore Accardo è diventato papà di due “stradivarine”, due splendide gemelline per le quali ha molto perdonabilmente abbandonato i preparativi per il concerto di questa domenica 24 agosto, alle ore 22 in San Galgano, ed è corso dalla sua lieta famigliola. Avendolo conosciuto personalmente, quattro anni fa in un camerino del Teatro dei Rozzi, con vera gioia ci congratuliamo per il doppio evento con tutta la redazione.
Al suo posto, accanto alla pianista Stefania Redaelli, è stato convocato in tutta fretta in Accademia Massimo Quarta, uno dei suoi ex allievi prediletti, oggi violinista tra i più brillanti, nonché direttore dell’Orchestra della Fondazione “Tito Schipa” di Lecce e docente alla Musikhochschule di Lugano. Quasi una fotocopia di Accardo sia per i ripetuti successi ottenuti sin dagli inizi della carriera, sia per quel premio vinto a Genova nel’91, il Prestigioso Concorso Internazionale Paganini, primo italiano a conseguirlo dopo la vittoria di Accardo nel ’58. Totalmente rivoluzionato, giocoforza, il programma in San Galgano. In luogo dei previsti Schubert, Wieniawski, Faurè e Janacek, saranno in esecuzione arie di Mozart, Frank, Tchaicovskij, Ravel e Paganini. Pieno romanticismo, pertanto, con l’eccezione del quasi contemporaneo Maurice Ravel che però, al romantico, rimase sempre strettamente legato.
Ricomponendosi, con Quarta, la coppia violino-piano assieme alla talentuosa Stefania Redaelli, sarà la “Sonata in sol maggiore K. 379 “ di Mozart ad aprire il concerto. Fu l’innata curiosità del vivacissimo Wolfgang Amadeus a spingerlo a misurarsi, in particolare, con le virtuosità (e anche le vorticosità) del violino solista. Pare che questa accattivante sonata il ventenne Mozart la scrisse in omaggio ad Antonio Brunetti, suo fedele amico e primo violino alla corte di Salisburgo. Anche César Frank, ma in tarda età, scrisse la sua “Sonata in la maggiore”, brano successivo, dedicandola all’amico compositore Eugène Ysaye. E’ un’aria assai conosciuta, che risulterà persino familiare dato che oggi viene suonata da molti altri strumenti tra cui violoncelli e flauti, in diverse versioni e come sottofondi radiofonici o televisivi. Il ruolo guida è dato dal pianoforte, e il violino che lo asseconda, a detta degli amatori del brano, lo fa “con una certa voluttà”.
Di un dolce e malinconico Tchaicovskij, a seguire, una brevissima composizione, la “Serenade mélancolique”, in si bemolle minore, con un violino con le ali perduto nella contemplazione dei sentimenti. Qualche trillo tanto per riportarci alla realtà, poi il finale in pianissimo, come per dire che era stato solo un sogno. Quindi, i guizzi di Maurice Ravel con la sua “Tzigane, rapsodia da concerto”, lavoro funambolico del 1924, sullo stile delle rapsodie ungheresi ma anche delle diavolerie di Paganini. All’origine, per dare al brano ancora più spettacolarità, Ravel preferì addirittura al pianoforte uno strumento ormai dimenticato, il “luthéal”, capace di riprodurre i suoni di cembalo e chitarra armonica messi assieme. Insomma, una fantasmagoria tutta da ascoltare, col piano in rincorsa come un cavallo fumante.
Infine, pur se fra salti di corde e pizzicati pazzeschi concessi qua e là, un Paganini in una insolita veste pacata e armoniosa, come il Rossini svenevole di una struggente canzone d’amore (“…mi lagnerò tacendo della mia sorte amara, ma ch’io non t’ami, o cara, non lo sperar da me”). Ed è proprio una variazione paganiniana del famoso “Di tanti palpiti, di tante pene, da te mio bene spero mercè”, dall’epico “Tancredi” di Gioacchino Rossini, il pezzo che ascolteremo. Una variazione che con estrema godibilità sostituisce con piano e violino il cantato di Tancredi, eseguito nell’opera dagli alti da voce bianca.
La pianista Stefania Redaelli, ormai anche lei veterana delle scene senesi, si è perfezionata in musica da camera con Bruno Canino e con lo stesso Accardo. Vanta esecuzioni ed incisioni di tutto il principale repertorio di piano ed archi, e l’intera produzione cameristica di Brahms. Frequenta le più importanti sedi musicali europee e degli Stati Uniti, è docente al Conservatorio di Vicenza e il suo stile è definito “appassionato amabile”, quasi fosse il movimento di una partitura. Massimo Quarta, piglio alla Jeremy Irons, suona uno Stradivari “Conte De Fontana” del 1702 ma pure, come Accardo che ne suona due, un “Marechal Bertier” del 1716. Niente da fare, ai migliori violinisti gli Stradivari (o i Guarneri del Gesù) non possono mancare. Accardo ne parla con entusiasmo nel suo libro, “L’arte del violino”, che si può considerare una summa per quanti vogliono accostarsi alla magia di questo strumento. Antonio Stradivari, pensate, andava personalmente nei boschi a scegliersi gli aceri e gli abeti rossi per manico e cassa armonica, e il faggio per i ponticelli.
In San Galgano, poi, ogni cosa che suoni di notte assume un colore particolare, che sale su ad espandersi nello spicchio di cielo stellato. La costruzione dell’Abbazia, con quella imponenza gotico-cistercense da capogiro, si deve alle rigide concezioni architettoniche del santo Bernardo, uno che sfoltiva i luoghi di preghiera da ogni decorazione che potesse distogliere i fedeli. Facendone, così, monumenti di bellezza essenziale nelle loro navate austere, e in quell’andirivieni acrobatico di archi e pilastri. Ma non prevedendo né che un tetto si scoperchiasse né che ciò abbia nel tempo comportato una metamorfosi acustica unica al mondo, dove il piacere di suonare e l’ascolto, provare per credere, diventano deliziosamente la stessa cosa.