Piero Sandulli analizza un affresco pompeiano e ne trae interessanti ed attuali considerazioni
di Piero Sandulli
ROMA. In tempi di clausura forzata, a causa del flagello del “coronavirus”, ci si trova, per passare il tempo e compiere ipotetiche fughe di casa, a svolgere visite virtuali dei tanti musei della penisola, occasioni che sono state rese disponibili dal Ministero per i beni culturali.
Considerando i valori inestimabili della nostra cultura e quanto poco gli stessi vengono valorizzati – mentre dovrebbero rappresentare il nostro “petrolio” in grado di far decollare l’economia del Paese (soprattutto nell’Italia centro meridionale) -, mi sono imbattuto, tra le sale virtuali del Museo archeologico di Napoli, in un affresco di non semplice lettura che mi ha incuriosito.
Esaminando meglio quel dipinto fatto sul muro ed individuando la sua originaria collocazione, che era nella città di Pompei, ho cominciato a leggerne meglio i dettagli e ciò che l’antico, ignoto, autore aveva voluto rappresentare, ispirandosi ad un fatto di cronaca dell’epoca, che, evidentemente, aveva colpito la fantasia dei cittadini di Pompei prima dell’eruzione del Vesuvio, avvenuta nell’anno 79 dell’era cristiana, quando, non solo la cittadina di Pompei, ma la totalità dei luoghi e dei paesi che si trovavano tra il vulcano ed il mare, fu sepolta da una pioggia di lapilli e cenere che, per secoli, ne ha celato al mondo la stessa esistenza conservandola, fortunatamente, inviolata fino al 1748 quando furono avviati i primi scavi dai Reali Borboni.
Tornando, all’osservazione di quell’intonaco dipinto ho potuto individuare il luogo dove avvennero i fatti, affrescati in un’epoca collocabile – come vedremo – tra il 59 d.C. ed il 79, esso è lo stadio, ancora oggi visibile, in quanto di recente riportato alla luce, presso le mura a sud della città, in contiguità con la palestra. Non può esservi dubbio che si tratti di quel luogo, in quanto esso è chiaramente individuabile dalla scalinata d’accesso all’arena che la rende inconfondibile. Si tratta, dunque, di un fatto di cronaca avvenuto a Pompei qualche tempo prima della eruzione. Continuando ad esaminare, incuriosito, il murales sono passato ai dettagli della scena, connotata da non pochi protagonisti posti dentro e fuori lo stadio, riscontrando che si tratta del documento “fotografico” dei primi disordini prodotti da episodi di violenza perpetrata negli stadi ed intorno ad essi.
Aiutato dalla didascalia del museo sono riuscito a definire meglio l’evento, di cui si è occupato anche lo storico latino Tacito, che lo ha così descritto nel libro quattordicesimo, al capitolo diciassettesimo, dei suoi Annales: “nel corso di uno spettacolo di gladiatori organizzato ed offerto da Livineio Regolo (Senatore espulso ed inviato al confino a Pompei, che, in tal modo, cercava di recuperare il consenso popolare) in quel periodo (siamo nel 59 sotto il principato di Nerone) in una sorta di gara stracittadina tra i gladiatori di Pompei ed i limitrofi atleti Nocerini scoppiarono violenti scontri.
Essi cominciarono a seguito della intemperanza degli spettatori prodotta dal clima di particolare tensione che si era originato tra popolazioni contigue cominciarono, con l’intemperanza tipica delle cittadine di provincia, a scambiarsi insulti, poi sassi, per finire con mettere mano alla spada; ebbero la meglio quelli di Pompei, presso i quali si dava lo spettacolo. Molti di Nocera furono riportati nella loro città con il corpo mutilato o segnato da ferite e parecchi piangevano la morte di figli o genitori. Il principe (Nerone) affidò l’inchiesta sugli incidenti al Senato ed il Senato ai Consoli, i quali compirono la istruttoria per poi rinviare, per la decisione, la questione al Senato, questo decretò la chiusura dello Stadio di Pompei per 10 anni.
Allo stesso organizzatore dell’evento, il Senatore Livineio, fu comminata la sanzione dell’esilio, sanzione pure assegnata agli altri responsabili dei disordini”. Fin qui la cronaca di Tacito, ora è opportuno operare, in merito, alcune riflessioni, che ci riportino all’attualità.
Come è facile rilevare i disordini e gli insulti territoriali, riscontrabili nelle competizioni tra compagini limitrofe (gli antichi derby dell’epoca), hanno origini remote, così come gli scontri fisici, dai primi derivanti, con le conseguenze che in quella circostanza (del 59 d.C.) furono particolarmente gravi e cruente, fino a doversene occupare il Senato di Roma.
Allora (come oggi) il fenomeno fu energicamente sanzionato da quella che possiamo definire come la prima pronuncia in tema di giustizia sportiva. In quella circostanza il Senato, dopo la fase istruttoria compiuta dai Consoli (una sorta di primordiale Procura sportiva), ebbe la mano pesante, sospendendo per dieci anni gli spettacoli dei gladiatori nello stadio di Pompei, che patì questa lunga “squalifica del campo”. Comminando, inoltre, l’esilio a chi aveva organizzato, per una sorta di responsabilità oggettiva ante litteram.
Esilio comminato anche a quanti avevano partecipato agli scontri, sanzione questa che rapportata ai nostri tempi, può costituire una sorta di DASPO dell’epoca, assegnato ai violenti.
Quindi, anche sotto il profilo sanzionatorio, operate le dovute proporzioni, nulla di nuovo sotto il sole. Tutto ciò, però, soprattutto in questi tempi di “sospensione delle libertà”, deve suggerirci alcune riflessioni.
1. Non è certo attraverso l’inasprimento delle sanzioni che si sconfigge il fenomeno della violenza negli stadi; ma è necessario ricercare la condivisione delle tifoserie;
2. E’, invece, opportuno che, fuori dalla eccessiva enfasi (ora che la proiezione economica del fenomeno sportivo è ferma), lo sport torni ad esercitare il suo ruolo originario di condivisione, anche delle emozioni.Al riguardo, va ricordato che le Olimpiadi, dell’era antica, nate nel 1776 a.C. (durate ininterrottamente fino al 393 d.C., quando l’editto di Teodosio le fece venir meno, perché si erano persi lo spirito sportivo e la lealtà nelle competizioni), avevano come scopo principale il dialogo tra le varie città-stato della Grecia e la centralità dell’individuo, poiché prevedevano esclusivamente competizioni individuali.
3. In questo periodo di forzata meditazione è auspicabile la riscoperta dei veri valori costruendo delle “graduatorie” di essi meno effimere, del resto il “distacco sociale” implica, necessariamente, il prevalere del bene comune rispetto all’esasperato individualismo. Come si vede in questa complessa vicenda ogni persona rinuncia ad una parte, rilevante, delle proprie libertà a beneficio della salute di tutti. Ciò dovrà indurre, tornati alla normalità, a riflettere e considerare che, per il futuro, dovrà venire meno il relativismo individualista, a vantaggio dei valori della comunità e dell’agape cristiana.
4. Anche i tifosi dovranno interrogarsi sul proprio ruolo, recuperando valori sportivi, che sembrano essere stati dimenticati. Del resto anche il compito che la legge n. 86 dell’agosto 2019 (art. 4) intende dare alle tifoserie, coinvolgendole nella struttura, spinge nella direzione di responsabilizzarsi, portandoli a condividere le scelte delle società sportive.
Come si è visto è essenziale il ruolo dei tifosi, anche ai fini della completezza dell’evento tutti noi abbiamo considerato quanto è avvilente la celebrazione della partita a porte chiuse, lo stesso spettacolo appare incompleto e privo del necessario patos, carenza che viene percepita, in modo palpabile, anche dalla fruizione televisiva di esso. Questo ruolo deve essere riscoperto dai supporter che devono ritrovare il gusto ed il valore del tifo a favore dei propri beniamini, eliminando qualsiasi ipotesi di “tifo contro” o ogni becera manifestazione, sia raziale, che territoriale, circostanze queste, che non sono più tollerabili, alla luce dell’esperienza impostaci dal Covid-19, esperienza dalla quale dobbiamo trarre lo spunto per migliorarci, sia individualmente, che collettivamente.
Bisognerà, per il futuro, far tesoro delle meditazioni che questo “tempo sospeso” ci sta dando l’opportunità di effettuare e di conseguenza riscrivere una nuova “classifica” dei valori; il sacrificio comune deve portare alla salvezza di tutti, fuori dai personalismi, e dai localismi solo uniti e convinti della necessità delle rinunce di tutti ad una parte (anche rilevante) dei propri diritti ci si eleva e ci si salva.