Al Mascagni approda "La signora Julie"
CHIUSI. L’attore e regista Valter Malosti porta in scena al Mascagni domani (11 dicembre), La signorina Julie di Strindberg, uno dei testi più violenti nella storia del teatro moderno. Partito come guerra tra i sessi, il rapporto tra il servo e la padrona Valeria Solarino diventa qualcosa di più grande e terribile. Ci vuole coraggio a portare in scena Strindberg.
Anche oggi, a più di cento anni dal primo allestimento, La signorina Julie continua a gridare in tutta la sua estenuante violenza. Del resto persino Lindberg, l’attore e regista che all’epoca stava facendo il successo di Ibsen – non proprio noto per le atmosfere amene – rifletteva perplesso sul testo appena ricevuto, indicandolo come uno di quei casi in cui “il dramma diventa una medicina ripugnante”. Qui sono Valter Malosti e Valeria Solarino, tornata al teatro dopo fruttuosi anni di cinema, a raccontare la triste sorte della giovane figlia del conte, che seduce nella notte di San Giovanni il servo Jean, ma finisce per essere travolta dal suo gesto: in breve Jean ribalta i ruoli e sfrutta insicurezze e ingenuità della padrona per progettare la propria scalata sociale. Nei serrati scambi fra i due, Strindberg estremizza lotta di classe e lotta tra i sessi, in violente schermaglie che risultano tanto più convincenti quanto più seduttive, davvero eccezionali nei crescendo incalzanti che precedono gli amplessi. Tutto il dramma si svolge in una sbilenca cucina azzurra, appena accennata da alcuni oggetti chiave. E’ “l’anticamera dell’inferno” secondo Malosti, che nella doppia veste di attore e regista omaggia le indicazioni di Strindberg, teorico di una scenografia “impressionistica”. Mentre fuori la servitù continua la festa, scandita da musiche techno sempre più simili a tamburi tribali, le sue indicazioni per un “dramma moderno psicologico, dove le più fini sfumature dell’anima dovrebbero essere rispecchiate dal viso più che dalla gestualità e dalla concitazione” prendono corpo nelle smorfie dolorose di Valeria Solarino, che dà voce a una Julie quasi bambina, inquietante nella sua fragilità, con le lunghe gambe magre in una sottoveste infantile. Malosti, dopo La scuola delle mogli, torna anche con questo spettacolo a ragionare sui rapporti di coppia, sempre malsani, sempre destinati a trasformarsi in rapporti vittima/carnefice, e del carnefice indossa con successo l’ormai classica divisa, braccia nude e pelle nera. Sia il padrone che la serva sono intrappolati nelle proprie ossessioni: mentre Julie rivive le sconfitte dei genitori (la madre che odiava gli uomini ma ne è finita schiava, il padre che avrebbe dovuto suicidarsi ma non ne ha avuto il coraggio), Jean è così schiavo della sua volontà di elevarsi, e quindi implicitamente dell’ammirazione per quella stessa classe che lo rende servo, da poter bere il vino del conte ma continuare a tremare per il suono del suo campanello.
A fare da voce esterna, contemporaneamente personaggio e narratore, è Cristina, la cuoca promessa sposa di Jean, parte in sordina ma cresce di potenza nel corso dello spettacolo: se a un certo punto il suo personaggio sembra l’unico appiglio a una morale che, seppur di facciata, pare in qualche modo solida, alla resa dei conti ne dimostra tutta l’agghiacciante ambiguità: “non posso più servire questi padroni. Se non sono migliori di noi, a chi dobbiamo guardare?” E così è lei a riportare alla realtà la signorina, dopo una straziante sequenza in cui Julie si spinge a chiederle di fuggire con lei e Jean, immaginando una sorta di ménage à trois tanto sordido quanto tenero nella sua disperazione. Può esistere l’amore, o anche solo la comprensione, tra appartenenti a classi sociali diverse? Più semplicemente, possono esistere amore e comprensione? Non c’è redenzione, non c’è alcuna speranza. Non si è mai visto niente di più duro e scomodo a teatro, neppure nella sperimentazione contemporanea. Ed è per questo che si fatica, ma non si può fare altro che assegnare quattro soli a questa “medicina ripugnante”.
Anche oggi, a più di cento anni dal primo allestimento, La signorina Julie continua a gridare in tutta la sua estenuante violenza. Del resto persino Lindberg, l’attore e regista che all’epoca stava facendo il successo di Ibsen – non proprio noto per le atmosfere amene – rifletteva perplesso sul testo appena ricevuto, indicandolo come uno di quei casi in cui “il dramma diventa una medicina ripugnante”. Qui sono Valter Malosti e Valeria Solarino, tornata al teatro dopo fruttuosi anni di cinema, a raccontare la triste sorte della giovane figlia del conte, che seduce nella notte di San Giovanni il servo Jean, ma finisce per essere travolta dal suo gesto: in breve Jean ribalta i ruoli e sfrutta insicurezze e ingenuità della padrona per progettare la propria scalata sociale. Nei serrati scambi fra i due, Strindberg estremizza lotta di classe e lotta tra i sessi, in violente schermaglie che risultano tanto più convincenti quanto più seduttive, davvero eccezionali nei crescendo incalzanti che precedono gli amplessi. Tutto il dramma si svolge in una sbilenca cucina azzurra, appena accennata da alcuni oggetti chiave. E’ “l’anticamera dell’inferno” secondo Malosti, che nella doppia veste di attore e regista omaggia le indicazioni di Strindberg, teorico di una scenografia “impressionistica”. Mentre fuori la servitù continua la festa, scandita da musiche techno sempre più simili a tamburi tribali, le sue indicazioni per un “dramma moderno psicologico, dove le più fini sfumature dell’anima dovrebbero essere rispecchiate dal viso più che dalla gestualità e dalla concitazione” prendono corpo nelle smorfie dolorose di Valeria Solarino, che dà voce a una Julie quasi bambina, inquietante nella sua fragilità, con le lunghe gambe magre in una sottoveste infantile. Malosti, dopo La scuola delle mogli, torna anche con questo spettacolo a ragionare sui rapporti di coppia, sempre malsani, sempre destinati a trasformarsi in rapporti vittima/carnefice, e del carnefice indossa con successo l’ormai classica divisa, braccia nude e pelle nera. Sia il padrone che la serva sono intrappolati nelle proprie ossessioni: mentre Julie rivive le sconfitte dei genitori (la madre che odiava gli uomini ma ne è finita schiava, il padre che avrebbe dovuto suicidarsi ma non ne ha avuto il coraggio), Jean è così schiavo della sua volontà di elevarsi, e quindi implicitamente dell’ammirazione per quella stessa classe che lo rende servo, da poter bere il vino del conte ma continuare a tremare per il suono del suo campanello.
A fare da voce esterna, contemporaneamente personaggio e narratore, è Cristina, la cuoca promessa sposa di Jean, parte in sordina ma cresce di potenza nel corso dello spettacolo: se a un certo punto il suo personaggio sembra l’unico appiglio a una morale che, seppur di facciata, pare in qualche modo solida, alla resa dei conti ne dimostra tutta l’agghiacciante ambiguità: “non posso più servire questi padroni. Se non sono migliori di noi, a chi dobbiamo guardare?” E così è lei a riportare alla realtà la signorina, dopo una straziante sequenza in cui Julie si spinge a chiederle di fuggire con lei e Jean, immaginando una sorta di ménage à trois tanto sordido quanto tenero nella sua disperazione. Può esistere l’amore, o anche solo la comprensione, tra appartenenti a classi sociali diverse? Più semplicemente, possono esistere amore e comprensione? Non c’è redenzione, non c’è alcuna speranza. Non si è mai visto niente di più duro e scomodo a teatro, neppure nella sperimentazione contemporanea. Ed è per questo che si fatica, ma non si può fare altro che assegnare quattro soli a questa “medicina ripugnante”.