
di Lorenzo Pini
SIENA. L’ingresso è al terzo piano di un palazzo, a due passi dalla fontana di Trevi. Antonio Debenedetti, settantatré anni, giornalista e scrittore figlio del celebre Giacomo, sta sulla porta e spalanca un sorriso, mentre invita a proseguire verso la sala. Ovunque, libri. Riempiono librerie di legno scuro. Ma anche tavoli e davanzali di finestre. Oltre una porta socchiusa s’intravedono gli scaffali di una biblioteca, di volumi zeppa oltre misura.
«La tipografia, i caratteri mobili, i telefoni sempre occupati, e quell’odore di piombo. All’epoca lavoravo per “Paese Sera”, quotidiano romano del pomeriggio. Quello della redazione era un mestiere di artigiano, ci si alzava alle quattro del mattino e si passavano molte ore in piedi a comporre le pagine. Alla fine, il giornale lo sentivi tuo, e lo rimiravi come una creatura». Comincia a raccontarsi così, dalle sue origini, Antonio Debenedetti. Vive ormai da decenni a Roma, ha capelli sottili e grigi, una bocca sfuggente, e gli occhi un poco socchiusi da chi la sa lunga. Ricorda la città anni Cinquanta degli esordi: parla fitto, accomodato in un angolo del divano rosso nella sua casa. Brevi pause per immergersi nei ricordi di gioventù, con gli occhi che si perdono un attimo in un ritrovato paesaggio interiore fatto di ingranaggi della Linotype, metallo fuso e composizione meccanica delle lettere. Cominciò così, da operaio della parola, la sua carriera: «Sgobbare duro e farsi venire un batticuore terribile, questo è fare il giornalista. Il lavoro, e l’esercizio, pagano sempre. Ma serve una dedizione assoluta» Una gavetta che il giovane Antonio ebbe modo di addolcire grazie agli incontri con Saba, Montale, Moravia, Ungaretti, e altre svariate e straordinarie personalità di quei tempi che frequentavano il padre Giacomo, ovvero quel Debenedetti critico e saggista che ha segnato l’intero Novecento letterario.
Ascoltandolo, si ricompone in fretta la geografia della sua esistenza, e si ha come l’impressione di scivolare lentamente indietro nel tempo, di essere parte di un viaggio in cui la storia si intreccia con la letteratura. «Ci sono scrittori che lavorano nelle coscienze delle persone, con parole che travalicano il tempo, come alcune di Manzoni, Leopardi, e tutti i versi di Dante. Ci sono altri scrittori che non ci riescono, ma che dipingono straordinariamente un’epoca, come Moravia. La storia, da sola, non ci racconta niente, a cosa servono le date se non si conoscono gli uomini? Solo la letteratura può raccontarcelo».
C’è un’atmosfera di eleganza sabauda nelle pareti della sua casa romana. Mobili scuri, un tavolo rotondo ricoperto di libri, soffitti alti, la porta schiusa di una stanza adibita a biblioteca. Sui davanzali delle finestre sono posati volumi che costringono le imposte a un’apertura forzata.
A guardarlo così, seduto in angolo del divano rosso, il volto limpido segnato dall’età, le fessure degli occhi accesi, la bocca un po’ involuta e la voce cadenzata da una gestualità franca, si vedono in lui le città della sua formazione, luoghi che ha vissuto e, prima di tutto, amato farsi raccontare. Torino, dal padre. Roma, dalle pagine di grandi scrittori: «D’Annunzio, Fogazzaro, Pirandello, Moravia. Ogni scrittore ci racconta la sua città attraverso i personaggi-abitanti, i cambiamenti dell’urbanistica e del paesaggio, i rapporti sociali. Roma per me è l’insieme di tante Roma tratteggiate da chi le ha narrate, anche inventandole, ma cogliendone a fondo le caratteristiche della rispettiva epoca». Nella stanza entra il chiarore tenue di una giornata grigia, quel che basta per illuminare la sala. Leggerezza, parole semplici di qualche vicenda quotidiana, aneddoti di famiglia, e la conversazione scivola a toccare i temi più complessi dell’agire umano, fino a sondarne i fondali, per poi riemergere in superficie, e ancora giù, di nuovo, con frustate sagaci da giornalisti e inventiva di scrittore. «La storia ci ha dimostrato che ci sono periodi più o meno fecondi, che si ripetono. Il Novecento è stato un grande secolo per la letteratura, ora ci aspetta il futuro, e per questo è importante conoscere il passato. L’intellettuale vero è un uomo coraggioso che partecipa alla letteratura, e non all’industria culturale, come alcuni scrittori del momento. Dobbiamo avere il coraggio di pensare che sia possibile costruire il futuro. Camus era un emarginato, un ragazzo sofferente fuori dal sapere accademico, e dalla sua condizione ricavò una verità che ha sconvolto la cultura occidentale. Solo rifiutando alcuni modelli si va avanti».
Sul tavolo basso di vetro, tra i tanti libri, si intravede il dorso di “Giacomino”, il libro che ha dedicato a suo padre, il primo a intuire il genio di Proust e a importarlo in Italia. Antonio Debenedetti ha esordito come scrittore nel 1972 e non ha più smesso di scrivere racconti, e romanzi. Uno tra gli ultimi, Un giovedì, dopo le cinque, è stato finalista al premio Strega. «Essere scrittore è una cosa. Fare il giornalista, un’altra. Il primo inventa, e la dimensione del suo lavoro è solitaria e creativa. Il secondo fotografa una realtà, filtrandola nel modo più sapiente possibile per offrire un nuovo punto di vista al lettore. Questo è un mestiere etico, si rischia di fare danni ma il fine ultimo è quello di migliorare la società in cui viviamo». Ormai da anni firma prestigiosa del Corriere della Sera, non è un caso che la penna di quest’uomo attraversi pagine di mondi diversi, dall’inchiesta giornalistica al racconto scevro, dai romanzi ai ritratti del suo ultimo “Un piccolo grande Novecento”. Come se la Torino delle origini gli avesse conferito il rigore e la precisione, l’obiettività e l’ostinazione del professionista, come se la Roma di tutti i suoi anni avesse costruito su tali solide fondamenta castelli e sogni voluttuosi della “Dolce Vita”: «Ricordo il giorno in cui per l’ultima volta vidi Fellini, nel 1992. Mi ha lasciato tutto, raccontò il presente, e il futuro, disegnando l’epoca di una Capitale multietnica com’è oggi, una Roma democristiana borghese, cioè noi, cioè Andreotti, Celentano, le mignotte. Tutto. Vide tutto». Allora nell’austera casa romana dai soffitti alti, e le librerie ricolme, i volumi accatastati alla rinfusa sono un po’ di questo e un po’ di quello. «Nelle diverse stagioni della mia vita, ho cambiato il mio modo di scrivere. È la vita che cambia. E scrivere è vivere». Dal giornalismo alla letteratura, e ritorno. Come faceva da piccolo in treno, sulla linea Torino – Roma.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
SIENA. L’ingresso è al terzo piano di un palazzo, a due passi dalla fontana di Trevi. Antonio Debenedetti, settantatré anni, giornalista e scrittore figlio del celebre Giacomo, sta sulla porta e spalanca un sorriso, mentre invita a proseguire verso la sala. Ovunque, libri. Riempiono librerie di legno scuro. Ma anche tavoli e davanzali di finestre. Oltre una porta socchiusa s’intravedono gli scaffali di una biblioteca, di volumi zeppa oltre misura.
«La tipografia, i caratteri mobili, i telefoni sempre occupati, e quell’odore di piombo. All’epoca lavoravo per “Paese Sera”, quotidiano romano del pomeriggio. Quello della redazione era un mestiere di artigiano, ci si alzava alle quattro del mattino e si passavano molte ore in piedi a comporre le pagine. Alla fine, il giornale lo sentivi tuo, e lo rimiravi come una creatura». Comincia a raccontarsi così, dalle sue origini, Antonio Debenedetti. Vive ormai da decenni a Roma, ha capelli sottili e grigi, una bocca sfuggente, e gli occhi un poco socchiusi da chi la sa lunga. Ricorda la città anni Cinquanta degli esordi: parla fitto, accomodato in un angolo del divano rosso nella sua casa. Brevi pause per immergersi nei ricordi di gioventù, con gli occhi che si perdono un attimo in un ritrovato paesaggio interiore fatto di ingranaggi della Linotype, metallo fuso e composizione meccanica delle lettere. Cominciò così, da operaio della parola, la sua carriera: «Sgobbare duro e farsi venire un batticuore terribile, questo è fare il giornalista. Il lavoro, e l’esercizio, pagano sempre. Ma serve una dedizione assoluta» Una gavetta che il giovane Antonio ebbe modo di addolcire grazie agli incontri con Saba, Montale, Moravia, Ungaretti, e altre svariate e straordinarie personalità di quei tempi che frequentavano il padre Giacomo, ovvero quel Debenedetti critico e saggista che ha segnato l’intero Novecento letterario.
Ascoltandolo, si ricompone in fretta la geografia della sua esistenza, e si ha come l’impressione di scivolare lentamente indietro nel tempo, di essere parte di un viaggio in cui la storia si intreccia con la letteratura. «Ci sono scrittori che lavorano nelle coscienze delle persone, con parole che travalicano il tempo, come alcune di Manzoni, Leopardi, e tutti i versi di Dante. Ci sono altri scrittori che non ci riescono, ma che dipingono straordinariamente un’epoca, come Moravia. La storia, da sola, non ci racconta niente, a cosa servono le date se non si conoscono gli uomini? Solo la letteratura può raccontarcelo».
C’è un’atmosfera di eleganza sabauda nelle pareti della sua casa romana. Mobili scuri, un tavolo rotondo ricoperto di libri, soffitti alti, la porta schiusa di una stanza adibita a biblioteca. Sui davanzali delle finestre sono posati volumi che costringono le imposte a un’apertura forzata.
A guardarlo così, seduto in angolo del divano rosso, il volto limpido segnato dall’età, le fessure degli occhi accesi, la bocca un po’ involuta e la voce cadenzata da una gestualità franca, si vedono in lui le città della sua formazione, luoghi che ha vissuto e, prima di tutto, amato farsi raccontare. Torino, dal padre. Roma, dalle pagine di grandi scrittori: «D’Annunzio, Fogazzaro, Pirandello, Moravia. Ogni scrittore ci racconta la sua città attraverso i personaggi-abitanti, i cambiamenti dell’urbanistica e del paesaggio, i rapporti sociali. Roma per me è l’insieme di tante Roma tratteggiate da chi le ha narrate, anche inventandole, ma cogliendone a fondo le caratteristiche della rispettiva epoca». Nella stanza entra il chiarore tenue di una giornata grigia, quel che basta per illuminare la sala. Leggerezza, parole semplici di qualche vicenda quotidiana, aneddoti di famiglia, e la conversazione scivola a toccare i temi più complessi dell’agire umano, fino a sondarne i fondali, per poi riemergere in superficie, e ancora giù, di nuovo, con frustate sagaci da giornalisti e inventiva di scrittore. «La storia ci ha dimostrato che ci sono periodi più o meno fecondi, che si ripetono. Il Novecento è stato un grande secolo per la letteratura, ora ci aspetta il futuro, e per questo è importante conoscere il passato. L’intellettuale vero è un uomo coraggioso che partecipa alla letteratura, e non all’industria culturale, come alcuni scrittori del momento. Dobbiamo avere il coraggio di pensare che sia possibile costruire il futuro. Camus era un emarginato, un ragazzo sofferente fuori dal sapere accademico, e dalla sua condizione ricavò una verità che ha sconvolto la cultura occidentale. Solo rifiutando alcuni modelli si va avanti».
Sul tavolo basso di vetro, tra i tanti libri, si intravede il dorso di “Giacomino”, il libro che ha dedicato a suo padre, il primo a intuire il genio di Proust e a importarlo in Italia. Antonio Debenedetti ha esordito come scrittore nel 1972 e non ha più smesso di scrivere racconti, e romanzi. Uno tra gli ultimi, Un giovedì, dopo le cinque, è stato finalista al premio Strega. «Essere scrittore è una cosa. Fare il giornalista, un’altra. Il primo inventa, e la dimensione del suo lavoro è solitaria e creativa. Il secondo fotografa una realtà, filtrandola nel modo più sapiente possibile per offrire un nuovo punto di vista al lettore. Questo è un mestiere etico, si rischia di fare danni ma il fine ultimo è quello di migliorare la società in cui viviamo». Ormai da anni firma prestigiosa del Corriere della Sera, non è un caso che la penna di quest’uomo attraversi pagine di mondi diversi, dall’inchiesta giornalistica al racconto scevro, dai romanzi ai ritratti del suo ultimo “Un piccolo grande Novecento”. Come se la Torino delle origini gli avesse conferito il rigore e la precisione, l’obiettività e l’ostinazione del professionista, come se la Roma di tutti i suoi anni avesse costruito su tali solide fondamenta castelli e sogni voluttuosi della “Dolce Vita”: «Ricordo il giorno in cui per l’ultima volta vidi Fellini, nel 1992. Mi ha lasciato tutto, raccontò il presente, e il futuro, disegnando l’epoca di una Capitale multietnica com’è oggi, una Roma democristiana borghese, cioè noi, cioè Andreotti, Celentano, le mignotte. Tutto. Vide tutto». Allora nell’austera casa romana dai soffitti alti, e le librerie ricolme, i volumi accatastati alla rinfusa sono un po’ di questo e un po’ di quello. «Nelle diverse stagioni della mia vita, ho cambiato il mio modo di scrivere. È la vita che cambia. E scrivere è vivere». Dal giornalismo alla letteratura, e ritorno. Come faceva da piccolo in treno, sulla linea Torino – Roma.
© RIPRODUZIONE RISERVATA