Siena e le iscrizioni dell’antica Roma

La torre con l’iscrizione “VERO ET VALE”

di Augusto Codogno

SIENA. Che la “Sena Julia” fosse stata una colonia romana è ormai un dato acquisito, così come il fatto che avesse anche a quei tempi una certa importanza strategica-militare. La città militare andò certamente a stravolgere l’architettura preesistente (che doveva esistere nell’area antichissima di Castelvecchio), adattandola a quella romana costituita da una forma abbastanza rettangolare ed accessibile da quattro porte “urbiche”, tra le quali sicuramente “Porta Salaria” e “Porta Oria”. Nonostante recenti scavi ci abbiano confermato la presenza di palazzi romani del periodo imperiale, come quello vicino al teatro dei Rozzi e non lontano da Porta Salaia, (ma anche in altre zone di Siena), le testimonianze artistiche, templi, lapidi, iscrizioni, hanno sempre scarseggiato.

Se qualche nuovo rinvenimento è stato fatto nell’ultimo secolo, è altrettanto vero che negli ultimi due secoli altri oggetti ed altre iscrizioni marmoree sono misteriosamente sparite nel nulla. Così, leggendo un saggio del 1867 dell’esimio F. Carpellini, ho potuto capire ciò che, anche un paio di secoli fa, si conosceva intorno al mondo delle testimonianze romane in quel di Siena.

Partiamo intanto dal presupposto che le iscrizioni che ci parlano di Siena al tempo degli imperatori romani sono scarsissime.

Tra le più antiche ci sono tuttavia quelle di alcuni Decurioni senesi rinvenute nella città di Roma. La prima, risalente al 394 d.c., era in un marmo di Villa Mattei e fu tradotta due secoli fa dall’Archeologo Marini. Qui si leggeva “Saenensivm Ordo” e citava quindi i Decurioni senesi. La parola “SAENA” appare invece per ben due volte in una iscrizione nella Città del Vaticano, pubblicata a metà del 1800 sempre dal Marini dove si legge anche un lungo elenco di Pretoriani di varie città italiane. Tra questi un paio sono senesi. Uno, il cui nome finisce per “S” era tra gli ascritti al tempo del Consolato di Lucio Appio Massimo, console al secondo mandato sotto Traiano, quindi siamo nell’anno 103 d.c.. L’altro, il cui nome finisce per “R”, era ai tempi del Console Quinto Giunio Rustico, con Adriano Imperatore, console per la terza volta.

A parte questa testimonianza di due pretoriani senesi, poco altro ci giunge del periodo in cui la nostra città era una colonia romana, se non il curioso accadimento narrato dal grande scrittore romano Cornelio Tacito. Forse fu quello il primo fatto che affibbiò ai nostri cittadini la “nomèa” di popolo bizzarro e strano fin dai tempi antichi, accreditandosi come gente istintiva e combattiva, pronta a farsi giustizia senza tanti timori.

Eravamo nel 70 d.c. (venti anni dopo la morte di Augusto), quando il senatore di Roma Manlio Patruito, recatosi nella Colonia di Siena (versione del Davanzati, ma anche nel Lib. IV, Cap. XLV Historium), “si querelò di essere stato dal popolo, d’ordine del Magistrato, rifrustato di pugna, e per giunta fattogli intorno cerchia e piagnisteo da morto, con vituperi che toccavano tutto il Senato. Udite le parti, conosciuta la causa, furono condannati i colpevoli, e per partito del Senato ammonita la plebe senese ad aver più cervello”. La versione in latino conferma fedelmente l’accaduto (“Manlio Patruitus, Senatur pulsatum se in colonia senensi …..”). In pratica questo Senatore, detto alla senese, “l’aveva buscate ed era stato preso in giro”.

Altre iscrizioni esistevano a Siena e ci furono tramandate per iscritto da studiosi ed eruditi come il Cittadini, il Gallaccini, il Benvoglienti, il Gori, ma di esse, si è perduta nel tempo la memoria e chissà dove sono andate a finire, forse in alcune collezioni private. Solo una fu salvata perché il Cavalier Pecci la fece murare a Porta Romana ed ancora esiste. In questa iscrizione compare il nome di “Caio Victricio Memore”. Si tratta si un “Seviro Augustale” il quale dedica una pietra votiva al dio Silvano. Il Pecci dedusse erroneamente che i “Seviri Augustali” fossero un “gran magistrato”, mentre altro non erano che “fratrìa”, cioè sacerdoti con il compito di diffondere il culto divinizzato di Augusto, creati appositamente da Tiberio. Così anche a Siena operarono questi religiosi che in genere vivevano in piccoli gruppi nelle città più importanti dell’Impero.

La lapide recita così:

“SILVANO. SAC.

C. VICTRICIVS

MEMOR VI. VIR

AUGUSTAL V. “

L’altezza della pietra e l’erosione non danno una chiara lettura dell’ultimo verso, ma sembra di intravedere tra la parola “AUGUSTAL” e la letterea “V”, una “S” che potrebbe stare per la parola “SOLVIT” poiché il taglio della pietra mostra che la lettera “V” è l’ultima di una parola. Ai tempi del Pecci fu creduto fosse esistito a Siena un grande tempio dedicato al Dio Silvano, ma non è stata mai rinvenuta alcuna traccia, sebbene il suo culto fosse diffusissimo a livello “nazionale” (per capirci) e le genti italiche lo venerassero in quanto divinità Agreste.

L’iscrizione più enigmatica però rimane quella all’inizio di Via Montanini che si esplicita nella frase “Vero e Vale”. Molte le fantasie che da sempre gli studiosi hanno partorito in proposito all’esatta traduzione di questa frase, che tra l’altro è sicuramente tranciata. Ancora oggi è visibile su una delle quattro torri che facevano parte dell’antico fortilizio dei Malavolti (Colle dei Malavolti, oggi piazza della Posta). Anticamente le torri erano addirittura quattro, ma resta traccia solo delle due che sono proprio all’inizio della via già citata e che erano unite da un arco recentemente scomparso. Venendo da via banchi di Sopra verso Camollia, l’epigrafe si vede incastrata nella torre di sinistra sotto i resti accennati dell’arco distrutto che univa le due torri speculari. Questa era la zona di San Donato ai Montanini, dove era anche la chiesa antica scomparsa (inizio 1200) e l’adiacente ospedale e qui passò poi la Francigena.

L’iscrizione recita “VERO ET VALE” , ma questa non è sicuramente la sua collocazione iniziale. Probabilmente le due parole, essendo il travertino tranciato da ambo i lati, sono la fine e l’inizio di due nomi sui quali indagheremo a breve. Molti studiosi convergono che, essendo del periodo romano, si tratti dei nomi di due Consoli, ma quali?

Nel 167 d.c., c’era un Lucius Aurelius Verus imperatur console per la terza volta, ma affiancato da Giunio Montano.

Nel 323 d.c., Acilius Severus, ma insieme a Vezzio Rufino Console.

Nel 324 erano consoli i due figli di Costantino già chiamati “Cesari”. Insomma per farla breve se troviamo un “vero”, non troviamo un “vale” e viceversa. Solo in un caso però ci avviciniamo alla soluzione, sempre se abbiamo avuto fortuna, ed’ è relativo agli anni 146 e 147 dopo cristo. Nel primo anno il Console è Gneus Claudius Severus con Erucio Cloro, mentre nel secondo è Marcus Valerius Largus con un altro “vale”, cioè Marco Valerio Messalino. Usava in quel periodo eleggere i consoli cosiddetti “surrogati”, “sostituiti” o “suffeti” e questo, a differenza degli altri, avveniva anche in mesi diversi da Gennaio. Dunque le cariche di chi veniva eletto a Gennaio e quelle di chi veniva eletto ad esempio a Luglio, avevano dei periodi nei quali si sovrapponevano (anche se entrambe scadevano nell’arco di un anno). Ecco quindi che al Severo del 146 si sostituirà il Valerio del 147 con alcuni mesi di interregno che, se fosse dimostrato, ci darebbe anche la datazione della pietra di Via Montanini scolpita, secondo questa ipotesi, tra il Luglio e il Dicembre del 146 dopo cristo.