di Augusto Codogno
SIENA. Gli anni difficili che seguirono alla morte di Pandolfo Petrucci furono anche quelli che precedettero l’ultima guerra di Siena, quella che si concluse con la fine della nostra Repubblica. Nel 1524 Fabio Petrucci aveva organizzato una sommossa per ripristinare la tirannia della sua casata, attaccando il Governo senese ed il Palazzo Comunale, ma il popolo, armi in pugno glielo aveva impedito. Tra coloro che si distinsero nella resistenza c’era anche Mario Bandini, giovane senese che già aveva dimostrato attitudine al comando e buona arte oratoria.
Nato da Salustio Bandini e Montanina di Andrea Todechini Piccolomini, recitò una famosa orazione nel 1520, per i funerali di Monsignor Girolamo Piccolomini, Vescovo di Pienza. Di nobile famiglia, aveva condotto importanti studi a Siena ed aveva già ricoperto alcuni incarichi pubblici di livello (Cancelliere di Balìa). La sua “scesa in armi” per difendere la libertà senese, a fianco di Sinolfo Saracini e Gio:Battista Piccolomini, gli aveva fatto acquistare notevole fama in Siena, tanto che molti giovani si riunirono intorno a lui, formando il gruppo dei cosiddetti “Libertini”, i quali firmando e giurando fedeltà lo avevano eletto loro capo. Come ci racconta il Pecci, erano costoro “200 Compagni” i quali avevano promesso solennemente che “sempre sarebbero stati nemici di tutti coloro, che avessero della Patria tentato usurparne…” e che “andavano di tale unione così baldanzosi, che non s’astenevano in publico con cartelloni affissati alle Cantonate, e in privato molto più, di lasciarsi uscire di bocca molti vantamenti….”.
Uno di questi “manifesti” è giunto fino; si tratta di un sonetto, rimato proprio dallo stesso Mario Bandini che, come vedremo in seguito, fu anche un ottimo poeta: “…Tira el Tiranno a tutte le sue voglie, / Chi priva dell’avere, chi della vita, / A cui tolle la Figlia, a cui la Moglie; / +++++++++ / Purchè vi piaccia, la cosa è finita, / Però, con faccia ardita, / A conservarla state arditi, e franchi, / Prima morir, che Libertà vi manchi.”
Intanto la città stava cercando un’intesa tra i vari “Monti” per formare un nuovo Governo e soprattutto si discuteva sul numero dei membri che vi dovevano accedere. Fabio Petrucci e gli altri fautori della sommossa (tra cui il Petroni e Alessandro Bichi) erano stati costretti a fuggire da Porta Tufi per evitare conseguenze maggiori, ma si erano allontanati poco dalla città tramando di ritornarci al più presto. Finalmente l’accordo di Governo fu trovato e, adunato il Senato, fu deciso che il supremo Organo fosse composto di 98 persone in totale: 22 dell’Ordine dei Nove, 25 dei Popolari, 25 per i Nobili e Riformatori e 26 per i Dodicini. Naturalmente Mario Bandini fu eletto tra i “Popolari”.
Passarono pochi mesi e nel Gennaio 1525, grazie ad un’altra congiura della fazione “novesca” e con la complicità del Papa e dell’esercito del Duca d’Albania (che stava attraversando apparentemente in modo innocuo lo Stato Senese), la repubblica venne destituita e riaffidata la Signoria ad Alessandro Bichi prontamente rientrato in Siena. Ecco allora che furono costrette ad allontanarsi le famiglie di parte opposta ed ovviamente anche Mario Bandini. Alessandro Bichi introdusse a breve un “Collegio dei Sedici” e strinse forte alleanza con Papa, ma il malcontento dei senesi lo spinse a ritornare in patria dove, nel Marzo 1525 tenne un memorabile discorso contro la tirannia che in parte riporterò:
“ ….Nè parendogli aver fatto abbastanza per opprimere il governo Popolare, ne han sopra le spalle posto il giogo del Tiranno, le quali cose, secondo il costume, se fussero dalla Signoria state proposte in Senato, il Popolo vi avrebbe provveduto, e tutte l’avrebbe ributtate, ma poiché la forza, e l’arme ci hanno la libertà strappata di mano, la Signoria ingiusta, che ha la forza partorito, e la forza mantiene, conviene a noi, colla forza, atterrare ….Per la libertà nulla specie di morte succederà, che onesta, che gloriosa non sia, degna d’Uomo libero, degna d’un vero Cittadino, sicche’ conviene porsi a rischio, né aspettare, che, dormendo, la libertà ci venga dal cielo a truovare. Prendete l’arme, prevenite colla forza, e coll’ardire, la libertà, risquotete voi, ed i Posteri vostri dalle mani della superba Signoria di pochi, scuotete questo giogo, se già voi le morti de’ buoni , il sacco della vostra roba, e la servitù più tosto che la libertà, non desiderate.”
Ne seguì l’uccisione di Alessandro Bichi e l’ennesima rivolta nella quale Mario Bandini combattè valorosamente nella zona del Duomo, riuscendo a ricacciare indietro i “noveschi” arrivati dalla zona di Camollia e guidati dal Bulgarini, grazie anche all’aiuto del Beccafumi che, con decine di libertini, sopraggiunse dal Fosso di Sant’Ansano (dietro l’Ospedale S. Maria della Scala) a dar man forte. Di lì a poco si riunì il Consiglio Generale e vennero eletti alcuni Deputati detti “Conservadori della Libertà”, tra i quali anche il nostro Mario Bandini.
L’anno seguente lo ritroveremo tra i valorosi combattenti senesi che vinsero la famosa “Battaglia di Camollia”, passata alla storia e non solo quella della nostra città. Ma anche negli anni successivi il Bandini si distinse per le sue focose battaglie, sempre osteggiato dai “noveschi” e spesso ne subì le conseguenze, ma alto era il rispetto nei suoi confronti, soprattutto tra i ceti meno abbienti. Tra le tante azioni che lo videro protagonista, l’ennesimo tumulto scoppiato in città nel gennaio 1530, appena l’esercito Cesareo di Don Ferrante Lopes stava lasciando lo stato senese. Le truppe imperiali tornarono indietro e si accamparono a Cuna, grancia del Santa Maria della Scala vicino a Monteroni d’Arbia. Ad aspettarlo c’erano i “noveschi” fuggiti da Siena, che lo esortarono a prendere posizione e fu così che Don Ferrante minacciò in modo molto risoluto gli insorti. Anche i capi dei popolari si recarono a Cuna per cercare di calmare l’ira del Lopes e trattare il rientro dei noveschi e la restituzione dei beni che la popolazione gli aveva sottratto, ma Don Ferrante era in collera con loro, specialmente con Mario Bandini a cui addossava tutta la colpa della sommossa. Così quando costui si recò a Cuna, assieme al celebre “mattana” (Achille Salvi), venne immediatamente imprigionato con il compagno. L’intenzione di intimorire i popolari però ottenne l’effetto opposto e la cattura dei due esponenti ebbe a Siena l’effetto contrario di quello che Don ferrante sperava.
Tra l’altro, un episodio degno dei migliori film d’avventura, mise in ridicolo Don Ferrante e tutto l’esercito imperiale. Ecco come ce lo racconta Giovanni Antonio pecci nel 1758: “Mario Bandini ritenuto come si è detto, in quella Torre di Cuna, che in oggi è spianata, osservando che una angusta feritoja, formata corda co’ lenzuoli del letto, e per essa calandosi notte tempo, gli riuscì scappare e tornarsene in Siena, e Don ferrante, intesa la fuga del Bandini, recatasela a vergogna, per covrire un tale disordine licenziò il Salvi ancora”.
Nel 1539 Mario Bandini è ancora a capo di una rivolta chiamata anche la “Congiura di Crevole”, ordita contro la famiglia senese dei Salvi, che però non andò a buon fine. Il nostro libertino non fece in tempo ad arrivare a Siena con le truppe che aveva arruolato a Massa, che tutto si era già concluso a favore dei Salvi i quali, grazie ad una spiata, avevano anticipato i tempi dei rivoltosi.
Naturalmente le imprese del Bandini non finiscono qui e ci vorrebbe un libro intero per descriverle tutte, ma occorre passare qualche anno oltre ed arrivare al 1552 quando i senesi cacciarono gli spagnoli dalla città. Anche Bandini era presente e contribuì a tale operazione che provocò le ire degli imperiali causando quella guerra (1553/1555) che sancì definitivamente la fine della Repubblica senese. Nella “Guerra di Siena” si distinse ancora per il suo impeto e per la difesa della città e ricoprì ruoli militari di primo ordine (fu capitano del Popolo), ma alla fine la fame costrinse alla resa. Non poteva finire così l’eroica vita di Mario Bandini che volle ancora tenere acceso il fuoco della speranza e della libertà. Uscendo dalle mura infatti, prese i sigilli di Siena e si ritirò con molti altre famiglie a Montalcino dove, una volta arrivato, pronunciò la leggendaria frase “Qui ora vive la Repubblica di Siena”. Ed infatti tenne vivo ancora per una manciata di anni il sogno di Siena libera.
Proprio a Montalcino fu costituita la cosiddetta “Repubblica di Siena Reparata in Montalcino” che continuò a battere moneta, ad avere statuto, leggi, balie, confini ed esercito e dove Mario fu ancora Capitano del Popolo. Caduta Montalcino (1559) Mario fu costretto all’esilio nella città di Bologna.
Cosa dire ancora di un personaggio così, ardito, sognatore, animoso ed impulsivo, avvezzo alle armi e sprezzante del pericolo, difensore estremo e indomito della sua patria? Forse qualcosa sul suo lato meno conosciuto: quello di poeta. Diversi sonetti sono giunti a noi, ma sempre passati in secondo piano, viste le grandi imprese che Mario Bandini aveva fatto. E così vorrei concludere con questo suo scritto, prodotto quando ormai viveva a Bologna sulle rive del “Reno”, nella consapevolezza di non poter mai più tornare a Siena.
“Febo, ch’ognor nel più chiaro splendore
Vi specchiate di quel che guida in cielo,
Quel Dio, che nel pigliar voi l’uman velo,
Vi diè ‘l nome gentil, degno d’onore;
Deh, vi voglia di me, che ignudo, e fore
Del sacro albergo, in mezzo al foco e ‘l gelo,
Nel sen lombardo, il mio infelice stelo,
Preda d’affanni pasco di dolore:
Dite a quella più d’altre alma gentile,
Che in sin di qui per lei tremo e sospiro,
E vo più sempre innanzi, e piango al meno.
Voi udite parole in saggio stile;
Io meco spesso e con amor m’adiro:
Voi a l’Arbia ridete, io piango al Reno”.
Errata Corrige: la madre era Todeschini e non Todechini (errore di battitura)