Santa Caterina non sapeva né leggere né scrivere
SIENA. L’immagine della donna nel Medioevo non è certo positiva ed è associata sempre al peccato. E’ un essere debole che deve essere necessariamente sottomesso all’uomo che detiene in assoluto il monopolio del sapere e della cultura. Questo maschilismo è trasmesso e divulgato anche dal clero, che allora, era l’unico organo riconosciuto e deputato alla trasmissione della conoscenza e che, non esitava a definire le donne come esseri da cui bisogna diffidare. I parroci citavano brani tratti dal Vangelo (S. Paolo) per ribadire che le donne non possono comandare e nemmeno avere voce in politica e pubbliche assemblee. A Siena, in particolare, erano consuete le pubbliche Prediche di San Bernardino, particolarmente combattivo nel frenare il nascente “malcostume” delle donne. Fino al Rinascimento, la figura femminile doveva attenersi a regole di comportamento inculcate dalla tradizione, ma anche normate con leggi scritte.
Non potevano per esempio alzare la voce, dovevano piangere piano, dovevano sorridere e non ridere a bocca aperta (senza cioè far vedere i denti), dovevano camminare piano e non correre, non dovevano assolutamente imparare a leggere e a scrivere, non potevano decidere autonomamente il loro sposo, dovevano abbassare lo sguardo davanti agli uomini e non guardarli fissi negli occhi, non dovevano vestirsi troppo sfarzosamente perché, se troppo apparivano, poco pulita era l’anima. Erano separate dagli uomini sia a messa che nelle processioni.
Nel quattrocento molte cose sono cambiate. Siena è una città ricca e le donne di un certo rango cominciano la loro ascesa sociale e culturale. Il benessere portato con il commercio e con le banche si diffonde e le famiglie benestanti si moltiplicano andando ad aggiungersi a quelle nobili che già erano più emancipate. Anche per le donne comincia l’ accesso alla cultura, dapprima con lezioni di canto e di musica e poi anche di scrittura e lettura. Come non ricordare che nel secolo precedente alle donne era impedito di farlo! Le uniche che potevano imparare quest’ arte erano le religiose perché serviva loro per i libri di preghiera. Ricordiamoci che la stessa Santa Caterina da Siena non sapeva ne leggere, ne scrivere, e non imparò neppure, quando giovanissima prese i voti. Tutto l’epistolario e le lettere della Patrona d’Italia che ci sono giunte, sono state rigorosamente “dettate” dalla stessa.
Nel 1400 la musica cambia e viene fuori la vanità femminile in ogni suo aspetto. Naturalmente le moltissime fonti scritte dell’ epoca ci fanno conoscere solo le donne ricche e nobili, mentre poco si sa delle contadine e delle popolane. Di quest’ ultime si trova traccia solo quando commettono reati o hanno a che fare con pene pecuniarie per aver contravvenuto alle leggi del Comune di Siena. Tra la documentazione del Podestà relativa all’anno 1405, troviamo esempi di popolane come Monna Gemma e Monna Francesca, multate per aver venduto fegatelli vicino alle osterie, oppure come Monna Francesca di Niccolò condannata per aver venduto nel suo banco in Piazza del Campo una gallina infectam” (infetta), o come Monna Lucia che ha buttato le immondizie di casa nella pubblica via, o ancora Monna Caterina di Michele che non ha spazzato davanti all’ uscio di casa sua, o infine come Monna Nuta di Giovannone, presa in flagrante mentre dispettosamente rompeva le tegole del suo vicino di casa, tale Bernardo di Maestro Cecco. Qualche anno più tardi (1437), tale Antonio residente nel Terzo di Camollia deve pagare 20 Soldi perché sua moglie ha buttato acqua di scarico (“fetida”) dal balcone di casa schizzando i passanti.
Nelle famiglie benestanti le donne hanno fatto molti passi in avanti, forse troppi per la mentalità del tempo, tanto che anche le Istituzioni cercano di frenare e di arginare il crescente abuso del lusso e della “civetteria”. Il Comune di Siena regolamenta e mette norme su tutto, pene e balselli, ma come vedremo, non riuscirà a fermare la vanità delle donne.
Ad esempio una legge del 1471 vieta alle fanciulle non maritate di indossare “drappo o velluto di qualunque ragione tranne che in maniche o in capo”. E’ tuttavia consentito un “frontale”, che può essere anche impreziosito purchè il suo valore “non superi i quaranta soldi”. L’educazione delle fanciulle era contemplata anche in trattati e compendi molto diffusi al tempo dove si cercava di indirizzare i genitori ad un modus educandi di buoni costumi: “Le figliuole femmine l’alevino con grandissimo timore di Dio, fatile confessare l’anno più volte… Avezile a dire il Dì, l’Ufficio a Nostra Donna, s’elle sanno legere, guardile di non lasciarle conversare con fanciulle vane, che non sieno piene d’onestà e il simile le guardino dal non conversare con maschi, né co’ propri frategli, com’elli passino l’età d’anni sette. La madre che à fanciulle nolle lasci mai partire da sé, mentre sono in casa, ch’elle non sono andate a marito: e non le lasci andare e stare, né di dì, né di notte, fuori della casa sua”.
Ma anche il Matrimonio era normato da moltissime regole, fin dalla fase del Fidanzamento (detto “giura”), ed anche il pranzo di nozze, dove si doveva denunciare pure il numero delle portate (che non poteva eccedere le quattro) ed i totale dei convitati che non potevano superare i venticinque per entrambe le famiglie, o il corteo nuziale dove non si potevano superare i sedici cavalli, o gli anelli regalati che non dovevano essere più di tre, compreso quello dello sposo.
Nonostante tutto, le donne cominciano ad esser libere di acconciarsi, di truccarsi, di farsi belle a loro piacimento. Siena, grazie anche all’ enorme inventario di ogni tipo di stoffe portate dai mercanti provenienti da ogni parte del mondo (dai Salimbeni anche dall’Oriente) diventa una delle “Capitali della Moda”. La moda, a quei tempi denominata “usanza”, portò ben presto in città un buon numero di Maestri Sartori e Sartrici. Molto imortante erano anche le acconciature dei capelli. La donna era più bella con il “capo grande”, almeno così si riteneva ai tempi e quindi, per aumentare il volume della testa si diffuse molto in fretta l’ uso delle parrucche allora dette “capelli morti”. Il colore più in voga era il biondo e le varie pettinature avevano nomi oggi improponibili: “ a trippa, a frittella, a tagliere, a frappoli, a civetta, a balla, a merli, chi l’avviluppa in su, chi l’avviluppa in giù”.
I vestiti erano bellissimi e preziosi, con stoffe denominate: “velluto piano, velluto figurato, damaschino, broccato, sciamito, baldacchino, ciambellotto” o sete dai nomi strani tipo “Gro, Zetani, Zendalo, Rosado” di tutti i colori, scarlatto, cremisi, verde, azzurro, nero e molto ricercato il bianco. Divenne consuetudine mostrare il collo con vistose scollature, che per il Comune però non dovevano superare un giro superiore ad un “braccio e tre quarri” e venne introdotta ai vestiti la cosiddetta “coda” o strascico. Questo strascico non doveva però essere più lungo di 90 centimetri ed era vietato per motivi di igiene da metà Giugno a metà Settembre. Divenne di moda anche il tacco, ma non come lo intendiamo oggi, ma un prolungamento della scarpa stessa detto pianella che era di media 3 centimetri, ma poteva essere anche più alto.