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La Tavola dei Bonsignori e il suo fallimento nella Siena trecentesca

di Augusto Codogno

SIENA. Quel palazzo che ancora oggi porta il nome della famiglia Bonsignori e che oggi ospita la Pinacoteca Nazionale, fu la sede di una delle casate più importanti della nostra città. I Bonsignori o Buonsignori sono ricordati perché, nel bene e nel male, furono protagonisti della storia di Siena dal tredicesimo secolo fino alla caduta della repubblica, ma non mancarono di essere presenti, con minore intensità, fino al secolo scorso. Nel 1309 la Compagnia senese dei Bonsignori aveva dichiarato il proprio fallimento.

Ma che cos’era? E chi erano i Bonsignori?

Gli storici si dividono sulle radici di questa casata senese che in parte vorrebbero di origine non nobile, quindi cresciuta senza avere alle spalle un grande patrimonio, terre e case; altri invece sostengono una provenienza riconducibile alle antiche nobiltà feudali. La loro fortuna sembra essere iniziata nei primi anni del 1200 quando Bonsignore di Bernardo, considerato il capostipite, nell’anno del Signore 1203 compare tra i gestori della Dogana del Sale di Siena e Grosseto, ruolo di gran pregio e remunerazione per quei tempi. Secondo Andrea Dei, cronista senese (Rerum Italicarum Scriptores, XV, Mediolani 1729) la compagnia dei Bonsignori (o di Bonsignore), iniziò addirittura nel 1209, ma si estese e fece le prime fortune con i figli del predetto: Bonifazio e Orlando. I due fratelli avevano certamente allargato il loro raggio di influenza con la mercatura, il prestito, il cambio e, cosa non da poco, con la riscossione per conto della Chiesa di Roma dei tributi e forse anche delle decime. Il loro nome infatti cominciò a comparire nei registri pontifici già a partire dal 1235. La collaborazione con Gregorio IX nella seconda metà del 1200 in qualità di “campsores”, li aveva resi pian piano i banchieri di fiducia dei papi, per i quali non solo riscuotevano e cambiavano i denari delle decime e dei censi riscossi, ma elargivano anche prestiti alla Curia romana al bisogno.

In quel secolo la supremazia dei senesi in questo campo era indiscussa e ne aveva risentito tutta la città accrescendo la propria ricchezza ed importanza. Spesso infatti si recavano per affari nelle più importanti piazze europee ed avevano, come le banche moderne, succursali di rappresentanza o fiduciari ovunque: Roma, Genova, Marsiglia, Champagne, Parigi, Londra, Fiandre ecc… I Bonsignori, in particolare, accrebbero talmente il loro prestigio che diventarono prestatori anche di alcuni Re e la loro compagnia prese l’appellativo di “Gran Tavola”. Nel 1255, morto il fratello Bonifazio, Orlando rimase da solo a guidare questa compagnia. Sappiamo che in quel tempo aveva possedimenti vastissimi: Monteverdi, Montenero, Bagno Vignoni, Monte Antico, il castello di Montegiovi, case e mulini a Siena.

I Bonsignori erano ormai all’apice del potere e degli affari di quasi tutte le corti europee e, anche dopo i fatti di Montaperti, nonostante Siena ghibellina fosse interdetta da Papa Alessandro IV e poi sanzionata nel 1262 da Urbano IV, riuscirono a farsi escludere sia dall’uno che dall’ altro provvedimento che la curia romana aveva combinato alla nostra città. Anzi, a partire dal 1263 i Bonsignori divennero gli unici ad avere l’esclusiva della raccolta e del deposito del denaro raccolto dai collettori pontifici.

Come scrive Luciano Catoni: “Sotto Gregorio X si rileva una loro flessione, data la preferenza accordata da quel papa agli Scotti di Piacenza, suoi compatrioti. Con Giovanni XXI riprendono il loro posto, ma ormai la concorrenza dei banchieri fiorentini, lucchesi e pistoiesi si fa pressante ed anche per la potente compagnia senese, che fra l’altro ha perso la guida sicura e spregiudicata di Orlando, morto fra il 1272 e il 1273, cominciano le difficoltà ed il lento ma progressivo decadimento”.

Negli anni successivi poi, la riforma del governo senese, detto dei “XXXVI governatori”, aveva escluso molte casate dalle poltrone più importanti, tra le quali quella dei Bonsignori. Fu così che alcuni soci della compagnia abbandonarono la stessa e a breve cominciarono lotte interne tra i Bonsignori e i mercanti guelfi che erano saliti al potere. Un episodio in particolare vide una sommossa capeggiata dal figlio di Bonifazio Bonsignori (Niccolò) che, scoperto fu costretto all’esilio per alcuni anni.

Nel 1289, nacque una nuova compagnia detta “Società dei figli di Bonsignore“, ma le cose non andarono meglio, soprattutto per la discordia interna tra i soci e nel 1298 la crisi si acuì a dismisura. Ormai la situazione era compromessa e nel 1301 alcuni banchieri fiorentini, tra cui gli Acciaioli, i Bardi e i Cerchi, chiesero e ottennero dal Comune di Siena il sequestro dei beni della sopradetta compagnia. Durante la procedura fallimentare gli ex soci riuscirono a risarcire anche quei mercanti senesi che, volenti o nolenti, si erano ritrovati in Francia sotto sequestro del Re Filippo il Bello che doveva riavere dei denari dai Bonsignori e che, solo per il fatto che quei banchieri erano di Siena, li teneva in ostaggio. Nonostante tutto, alla fine, i creditori furono risarciti e il fallimento della compagnia non intaccò più di tanto le sostanze della famiglia.

Molto peggio andrà qualche anno dopo ai banchieri fiorentini che si ritroveranno definitivamente sul lastrico: Mozzi, Frescobaldi, Scali, Bardi e Peruzzi. Stessa sorte (anche se in toni di poco minori), per i Bonaccorsii e gli Acciaoli

La Camera apostolica, dopo diversi anni era riuscita a recuperare parte dei crediti che vantava nei confronti dei Bonsignori dopo aver messo sotto sequestro i beni che Niccolò aveva in Inghilterra ed a partire dagli anni quaranta del trecento si susseguirono una serie di commissioni che portarono a numerose inchieste al fine di riprendere altri beni dei Bonsignori. In particolare, si accanì contro la famiglia e lo stesso comune di Siena, Papa Clemente VI, il cui pontificato si era aperto nel 1342, nel bel mezzo di una serie di diatribe per via dei fallimenti bancari delle compagnie dei Bonaccorsi, dei Peruzzi e degli Acciaioli. A recuperare gli ingenti crediti verso questi banchieri fu delegato Pietro Vitali, nunzio apostolico di Lucca e referente per tutta quell’area chiamata “Tuscia” che comprendeva la Toscana e l’alto Lazio, quindi anche lo Stato Senese. Ed ecco che nel 1344 lo stesso Vitali, insieme ad un francescano senese di nome Francesco dei Marzi, si insediò nel monastero camaldolese di San Vigilio a Siena per aprire l’inchiesta riservata sui crediti che il Vaticano ancora diceva di vantare nei confronti dei Bonsignori e chiedendo invano la collaborazione del comune di Siena. Non avendo ottenuto l’auspicata collaborazione, i commissari pontifici, il 18 novembre 1345, scomunicarono la Balia di Siena, il capitano e il consiglio del Comune, pronunciando l’interdetto sulla città. I pericoli che queste sanzioni costituivano per il commercio senese costrinsero il Comune a trattare e gli eredi dei soci della Gran Tavola si obbligarono nel 1347 a versare 16.000 fiorini in otto anni a partire dal 1349. Raggiunto l’accordo, il primo di quell’anno, fu tolto definitivamente l’interdetto sulla città e gli eredi dei soci Bonsignori continuarono fino al 1353 a pagare le loro rate.

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