Chi era quest’uomo erudito, di buona famiglia, con una forte inclinazione alla dissolutezza, al gioco e alle donne?
di Augusto Codogno
SIENA. Fu un poeta senese contemporaneo dell’Alighieri, di cui però ben poche rime rimangono ed ancor meno si sa della sua vita. Ma chi era quest’uomo erudito, di buona famiglia, ma con una forte inclinazione alla dissolutezza, al gioco e alle donne?
Cecco nacque a Siena dalla nobilissima casata degli Angiolieri. Suo padre era Angioliero degli Angiolieri, uomo potentissimo, banchiere di Papa Gregorio IX, di fede guelfa. Ricoprì numerosi incarichi di Governo nella seconda metà del ‘200. Sua madre era tale donna Lisa dei Salimbeni, anch’ella di stirpe nobilissima. I genitori furono entrambi “Gaudenti”, appartennero cioè a quella milizia ufficializzata dalla Bolla pontificia “Sol ille verus”, emanata da Urbano IV nel dicembre del 1261. Quest’Ordine infatti prevedeva, oltre alla classica figura del “frate cavaliere”, anche la presenza del ramo femminile. Per diventare dunque “Frati della Beata Gloriosa Vergine Maria” non occorreva essere per forza “non sposati”. A Siena i “milites gaudenti” erano a fine 1200 molto numerosi, tanto che, nella nostra città, si tenne nel 1280 un famoso e documentato “Capitolo Generale” dell’Ordine. A tal proposito si è ipotizzato anche che, il ramo femminile dell’Ordine, costituito in prevalenza dalle mogli dei Gaudenti, sia stato il tassello fondante dei Collegi del Terzo Ordine Femminile di San Domenico, tanto che queste donne, una volta vedove, confluivano in esso. A Siena tra l’altro, il luogo di adunanza dei Cavalieri Gaudenti, fu nei pressi dei Frati Predicatori di San Domenico e, come cita il Federici, ma anche il Benvoglienti, dentro la stessa Abbazia avevano una loro cappella. Fu lo stesso Cecco Angiolieri a darci la conferma dell’affiliazione del padre in un suo celebre sonetto: “E quegli è il Cavalier, ch’è senza vajo, / Cioè il Gaudente, cui febbre non tocca”.
Cecco Angiolieri studiò a Siena e la fede politica ereditata dai suo familiari lo portò nel 1281 a far parte del contingente guelfo che assediò e distrusse i castelli di Fornoli e Torri in Maremma. Doveva avere una ventina d’anni ed il suo temperamento era già irrequieto e poco consone alle regole militari. Infatti, durante i fatti maremmani, poiché si era allontanato diverse volte dal “campo” senza permesso, fu multato ripetute volte.
Ma anche nel luglio del 1282 fu oggetto di sanzioni da parte del Comune di Siena in quanto non aveva rispettato il “coprifuoco”. Fu trovato (ripetutamente) in giro di notte dopo il terzo suono della “campana comunale”:«quia fuit inventus de nocte post tertium sonum campane Comunis».
Un altro analogo provvedimento gli fu comminato nel 1291, ma nello stesso anno subì anche un processo per essere stato implicato nel ferimento di tale “Dino di Bernardo di Monteluco”, terminato stavolta con il suo proscioglimento. Cecco fu di nuovo alleato dei guelfi fiorentini e partecipò alla famosissima “battaglia di Campaldino” (1289). Forse fu proprio qui che conobbe Dante Alighieri, pure presente nella medesima battaglia tra le stesse file.
Da quei pochi dati che abbiamo dunque, il rampollo Angiolieri doveva essere una cosiddetta “testa calda” ed infatti ebbe con il padre un rapporto molto difficile. A lui Cecco imputava il fatto di non passargli abbastanza denari, nonostante ne avesse tantissimi, così come emerge anche dalla poesia «S’i’ fosse foco». Il suo odio per il padre emerge in più sonetti, ma come dar torto ad Angioliero se effettivamente il figlio conduceva una vita sregolata basta sullo sperperar denari? Cecco stesso si descrive così:
«Tre cose solamente mi so ’n grado,
le quali posso non ben men fornire:
ciò è la donna, la taverna e ’l dado;
queste mi fanno ’l cuor lieto sentire»
Se queste notizie fossero effettivamente autobiografiche, si capirebbe bene come Cecco, in breve tempo, avesse dilapidato un’intera fortuna. Infatti vediamo, dai pochi dai pochi atti rimasti, che nel 1302 fu costretto a vendere per bisogno economico una sua vigna a tale Neri Perini del Popolo di Sant’Andrea per settecento lire.
Nel 1296 fu allontanato da Siena a causa di un bando politico e probabilmente visse qualche anno a Roma sotto la protezione del Cardinale Petroni, come si desume da un suo sonetto del 1203-1203 indirizzato a Dante Alighieri (s’eo so’ fatto romano, e tu lombardo). Non sappiamo con certezza se la lontananza da Siena dal 1296 al 1303 fu ininterrotta.
Molte delle sue liriche furono dedicate ad una donna di nome “Becchina” che, essendo già sposata, lo tiene a distanza. Ma anche Cecco in realtà era sposato, tanto che aveva almeno sei figli: Meo, Deo, Angioliero, Arbolina, Sinione e Tessa. Dunque quello che scrive, che racconta, è vero?
I suoi sonetti contengono allusioni autobiografiche, sempre considerate vere, come l’amore per Becchina, gli scontri con la moglie, pettegola e arcigna, una vita gaudente e spensierata trascorsa tra i dadi ed il buon vino. Ultimamente però alcuni studiosi hanno messo in dubbio tutto ciò come se le sue fossero esternazioni in parte frutto della sua fantasia. Comunque la si pensi Cecco Angiolieri ebbe un temperamento ardente, “scapigliato” e fuori dalle righe.
Personalmente credo che la sua vita sia stata molto simile a quello che si intravede dai suoi versi. Perché, penso, se avesse avuto bisogno di fare allusioni su fatti, amori, famiglia, non avrebbe inserito nel contesto la moglie e il padre, ma figure non riconducibili alla realtà. E poi Cecco, morto probabilmente nel 1312 a Siena, lasciò effettivamente i suoi figli sommersi dai debiti, tanto che furono costretti a rinunciare all’eredità.