Seconda Parte: da Corfù a Gerusalemme
di Augusto Codogno
SIENA. Seconda Parte: da Corfù a Gerusalemme
Ci eravamo lasciati con i nostri tre eroici preti senesi in quel di Corfù, isola greca. Il loro viaggio in Terrasanta li aveva spinti fin là lungo uno strano itinerario che non era certamente quello più breve, ma probabilmente quello più sicuro. Bisogna tener conto che Gerusalemme era ormai da tantissimo tempo nelle mani dei musulmani o, come li chiamava Ser Mariano “Sarraini” e cioè saraceni. La visita alla città di Gerusalemme ed ai luoghi santi era permessa dal Sultano dietro lauto pagamento e, probabilmente, viaggiare su navi di Venezia, dava una certa sicurezza di non venire attaccati. La repubblica veneta infatti continuava, per ovvi motivi di opportunità commerciali, a mantenere un buon rapporto diplomatico con l’Oriente, tanto da avere ambasciatori presso il Sultano. D’altronde le Repubbliche Marinare avevano sempre avuto un ruolo prioritario con il nemico musulmano ed il commercio (e il denaro) spesso erano serviti a trovare innumerevoli compromessi tra vinti e vincitori. Il primo “hospitale” cristiano in quel di Gerusalemme, quando ancora non era neanche stata progettata la Prima Crociata del 1099 e la città era ancora sotto la dominazione degli “infedeli”, fu ottenuto con una trattativa proprio ad opera della Repubblica Marinara di Amalfi e di alcuni facoltosi mercanti a cui si aggiunsero anche emissari Pisani. Non era certamente scontato, ma come dicevamo, il denaro facilitava il superamento di ostacoli a volte ritenuti insormontabili.
Ma torniamo a Corfù dove avevamo lasciato, a bordo di una Galea Veneziana, Ser Mariano Rettore della Chiesa di San Pietro a “Uvile” (e contemporaneamente della Cappella del Crocifisso all’interno del Duomo cittadino), Guasparre di Bartolomeo, prete al Duomo e il reverendo Pietro di Niccolò pievano di San Giovanni. Erano partiti da Siena il 9 Aprile (1431) ed erano arrivati a Corfù il 6 di Maggio. Qui sostarono un giorno e mezzo per ripartire l’8 Maggio verso la città di Modone che raggiunsero il giorno dieci senza fermarsi “e per la grandissima morìa, che v’era, andammo largi dalla città. E’ una bella città, et è de’ veneziani. Sono da Corfù trecento miglia. A dì XIII fumo nell’Isola di Candia, la quale gira 700 miglia…Tutta la Malvagìa (uva dolce e zuccherina) si cava di qui. Stemmovi due dì con grande paura per la grande moria, che v’era. Aitavanci (ci aiutavamo) con la perfetta Malvagìa. Pigliammo rinfrescamento (rifornimento) d’ogni cosa. Sono da Modone a qui trecento miglia ”.
Il 17 Maggio arrivarono nel porto di Rodi dove tutta l’Isola era nelle mani dei Cavalieri Gerosolomitani di San Giovanni detti appunto a quei tempi “Cavalieri di Rodi” o più semplicemente “Frieri”. Qui, a sole 14 miglia di mare, era il confine con i Turchi ed anche a Rodi l’epidemia aveva falcidiato ottomila cristiani in sei mesi, tanto che nessuno scese dalla nave se non quattordici Cavalieri di San Giovanni che avevano viaggiato con loro e che qui erano destinati. “A dì XX fumo nell’isola di Cipri (Cipro) a uno luogo che si chiama Baff, e fu una grande città. Sonvi ora due rocche, e cotali casali. Avemo rinfrescamento (rifornimento) d’acqua e di carne. Davanti cinque castroni grassi e grandi per uno ducato; avevano la coda grossa quattro buone dita, larga una grossa spanna (una spanna corrisponde alla larghezza da pollice a mignolo di una mano aperta) , longa più d’altre tanto. Sono da Rodi a qui trecentocinquanta miglia”. Finalmente il giorno 24 Maggio i nostri tre preti arrivarono al porto di Giaff (Giaffa) e quindi in Terrasanta. Era passato un mese e mezzo circa dalla partenza, ma ce l’avevano fatta.
Inutile immaginare l’entusiasmo dei viaggiatori che si misero a cantare il “Te Deum Laudamus” ed altre litanie di ringraziamento. In questo punto del diario ser Mariano si lascia andare a delle esternazioni molto discutibili in cui mescola l’entusiasmo per essere finalmente giunto nei luoghi santi, le preghiere, i ringraziamenti, la fede ad alcune frasi non cordiali nei confronti dei “saraceni” definiti come “iniqui, porci e cani rinnegati” . In pratica il sunto del suo pensiero, che è in realtà un monito nei confronti dei vari potenti europei, può essere riassunto in questo modo: ma perché vi fate la guerra tra di voi e lasciate questa terra così ricca, così piena di bellezza e di fede a questi odiosissimi infedeli? Ma nel porto di Giaffa l’avventura non era ancora terminata. Fu fatto scendere dalla Galea solo lo scribano che si recò a Rama (cittadina a 12 miglia da Giaffa) per prendere il salvacondotto. Questi ritornò con molti “Turcimanni” (Turcomanni) con molti asini, asinai, cavalli e muli.
I Turcomanni erano addetti ad accompagnare i pellegrini che si recavano in terrasanta, a proteggerli ed a fare in modo che non gli succedesse niente perché, come dice lo stesso Ser Mariano, era assai facile da quelle parti essere “ straziati, beffati e robbati”. Naturalmente l’incolumità aveva un costo e le tariffe ce le descrive molto bene il nostro prete senese: “ furono con asino et asinario, per testa, tredici ducati d’oro, e tanto pagava el povaro quanto el ricco. Non vi vada chi non ha modo di pagare, che guai alla pelle sua. E l’asino che si piglia qui, ti sarà apparecchiato mentre che si sta in terra Santa, e non gli hai da dare né mangiare, né bere, né fare nessuno governo…”. In sostanza, una volta pagato quanto stabilito, il “pacchetto turistico” era completo.
Finalmente i nostri preti senesi scesero e baciarono la Terrasanta che era allora considerata un vero e proprio stato. Come ci precisa ser Mariano infatti, questa regione “la quale fu da Dio promissa ad Abraam, e gli altri Santi Padri nel Testamento Vecchio…s’intende essere per longhezza cento sessanta miglia e per larghezza 46 miglia”.
I nostri parroci arrivarono poi nella città di Rama ed infine, dopo aver attraversato valli ed aver visto decine di castelli, indicati col loro nome cristiano, giunsero all’agognata meta di Gerusalemme il giorno 28 di quel mese.
Erano partiti il 9 Aprile da Siena ed erano arrivati il 28 Maggio a Gerusalemme, praticamente si erano fatti 49 giorni di viaggio. Ma quale era il premio così ambito dai pellegrini, tanto da far rischiare loro la propria vita? Anche questo ce lo spiega in poche righe Ser Mariano: “Come s’entra in Terra Santa, chi vi va in atto di peregrinazione si ha perdono di colpa e di pena essendo confesso, e pentuto (pentito) di tutti e’ suoi peccati, e così tutte l’altre Indulgenzie”.
FINE
In effetti sarebbe stato più logico.
Probabilmente in quegli anni era ritenuto un tragitto più sicuro. Nel Diario non si spiega il perché venne fatto questo percorso.
Forse il fatto di viaggiare sotto le bandiere di Venezia era considerato molto meno rischioso.