di Augusto Codogno
SIENA. (prima parte) Nel corso delle mie ricerche storiche nei vari archivi senesi, mi è capitato spesso di imbattermi in notizie curiose che hanno suscitato in me stupore o semplice ilarità. Quelle che ho ritenuto particolarmente interessanti o semplicemente divertenti sono andate a finire in una piccola cartellina del mio computer e solo recentemente mi sono reso conto, meravigliandomene per primo, che il loro numero era quantitativamente considerevole.
Nel frattempo il mio amico Luigi Bichi, particolarmente abile nelle ricerche in Archivio Arcivescovile di Siena, ne ha collezionate delle altre che mi ha puntualmente girato, tanto che adesso credo di possederne diverse centinaia.
Sono quelle notizie che provengono da contesti minori di vita cittadina (a partire dal quattrocento) e dai vari luoghi del contado senese, che non hanno mai interessato i grandi storici perché raccontavano fatti secondari e meno “primari”.
Eppure anche questa “storia minore” è qualificante proprio perché straordinariamente vera e ci fa vivere per qualche attimo la stessa atmosfera che si respirava dalle nostre parti qualche secolo fa.
La polizia, detta in quei secoli “Bargello”, operava giorno e notte per mantenere leggi e regole in città ed in campagna tramite i suoi agenti detti “famigli o famegli o anche Birri”. Erano loro che coglievano sul fatto ed arrestavano in flagrante ladri e delinquenti, oppure intervenivano a fatto compiuto incarcerando malfattori veri e presunti, in attesa del successivo processo e interrogatorio.
Tra le numerosissime cause civili e penali istruite nella città di Siena, spiccano per numero quelle riconducibili al fenomeno della prostituzione, segno che il fenomeno era veramente diffusissimo.
Molto facile infatti imbattersi in cause dove le povere donne “di mestiere” venivano offese, derubate e picchiate, come accadde per esempio nel gennaio 1545 a “Meia, meretrice in San Marco”, presa a bastonate o nel 1561 a “Maddalena, meretrice in Salicotto”. La competizione doveva essere altissima nel campo del “commercio carnale”, come lo definiva la legge e per questo si cercavano spesso nuovi “mercati”. Fu così che nel luglio del 1561 finirono in carcere “Presidia Dominici da Santa Fiora, Donna Maddalena e Caterina Guglielmi detta la Ciabattina, meretrici in San Marco”, ree di essere “entrate nel convento di S. Agostino e tentato commercio con i frati”. Ma nello stesso anno vennero imprigionate anche una certa Vittoria e una Caterina da Pistoia, note meretrici operanti in città.
Mi sono incuriosito tantissimo nel leggere i verbali dei processi a queste povere donne e soprattutto nel conoscere i loro “nomi d’arte” che erano veramente bizzarri e fantasiosi.
Maria detta la Morte e Margarita detta Occhi di pollo, meretrici in Salicotto; Lisabetta Parmi detta la Nasuncula, pubblica meretrice presso S. Giusto; Margarita detta Zufolina, meretrice in Rialto; Oritia detta la Merlina meretrice in Via de’ Maestri; Costanza detta la Rancina meretrice in Via de’ Maestri; Lucretia detta la Dentona meretrice nel Chiasso di Coda; Donna Maria detta la Ciavattaia, meretrice in San Marco; una certa Baliaccia, meretrice all’Orbachi; Cecilia Nelli detta l’Impiccatina, meretrice in Contrada dell’Onda; Agnesa Belli detta la Bruna meretrice nei pressi di San Pietro alle Scale; Margherita detta la Gozzuta, pubblica meretrice in Castel Vecchio. Ed ancora: la Gazzarina, Domenica Pini dal Casentino detta la Ceccona, Menica detta la Zoppina, Maria detta la Pisanina, Maddalena detta la Cardinalina, Menica detta Sette Giuli, Laura detta la Tafana, Francesca Gori detta la Sposina, donna Maddalena detta la Facchina Piccina.
Era molto facile inoltre, nel cinquecento e nel seicento, incorrere anche in altri tipi di reato che nel mondo di oggi ci sembrerebbero al limite dell’assurdo.
Citerò per esempio quelli numerosissimi a sfondo religioso, che vietavano di fare musica e qualsiasi tipo di gioco in prossimità delle chiese o rumoreggiare durante le funzioni, ma anche di lavorare la domenica. Il “giorno santo” era infatti il giorno del riposo e della preghiera e non era permessa nessuna attività, neanche in campagna. Molti documenti infatti riportano condanne per chi trasgrediva il cosiddetto “Bando delle Feste”.
Fu così che nel 1568 fu condannato tale Bartolomeo Usinini che, in compagnia di due donne, faceva “bordello” nei pressi della Cattedrale, disturbando la predica.
E spesso erano gli stessi preti che, invece di denunciare e far intervenire i pubblici ufficiali, si facevano giustizia da soli come accadde nel novembre 1549 a Sovicille. Fu proprio Don Antonio, cappellano della locale chiesa di S. Lorenzo che percosse tale Agostino di Angelo Piccardini perché suonava il cembalo troppo vicino alla sua chiesa.
Nel febbraio 1561 furono portati in giudizio da un parroco (Don Jacomo Tommasini), addirittura due personaggi di spicco della città, tale Magnifico Persio Buoninsegni e Niccolò Brogioni perché “passeggiavano nella chiesa di S. Agostino mentre era in corso la funzione per S. Agata”.
Ben tre mesi di prigione furono combinati a tale “Piero che sta al Palazzo de’ Diavoli” perché colpevole di “essere grande bestemmiatore”.
Ma le condanne fioccavano anche per chi veniva sorpreso a lavorare la domenica come Gosto Landi (anno 1566), abitante a S. Maria delle Grazie vicino a Porta Camollia o, nello stesso anno, Francesco Dominici, pizzicaiolo, che fu sorpreso a fare un muro in “Campo Reggi” (Camporegio).
Stessa sorte toccò a Mastro Antonio e mastro Piero entrambi muratori. Quest’ultimo, con l’aiuto di un suo garzone, lavorava di domenica in San Marco, in casa della fornaia Caterina.
Idem per Filippo Vannini, anch’egli non rispettoso del bando delle feste. Quest’ultimo era stato giudicato colpevole perché la domenica, dopo essere andato ad un matrimonio in quel di Frontignano, al ritorno “aveva portato delle legna sul cavallo”.
Furono condannati invece qualche anno prima (1564) Ciclelio, Michele e Mattia, tre scolari tedeschi perché trovati a “mangiare carne il Venerdì”.
(Continua)