Direttore responsabile Raffaella Zelia Ruscitto

La battaglia di Montaperti

Quel 4 settembre 1260 infisso nella mente dei senesi

di Augusto Codogno 

SIENA. Ben poca documentazione ufficiale rimane negli atti del Comune di Siena, relativa ad una delle più famose battaglie della nostra storia, perché, dopo la disfatta di Colle Valdelsa (1269), i Guelfi, tornati al potere nella nostra città, distrussero quasi tutto quello che era stato scritto sui fatti avvenuti. Fu ritenuto importante cancellare quanto più possibile dell’accaduto, affinché si affievolisse il ricordo storico e se ne perdesse la memoria. La politica Guelfa, nonostante fosse alla fine vincente, non riuscì mai a contrastare veramente il diffondersi dei fatti di Monteaperti e, le eroiche gesta di quel contesto, hanno continuato la loro fortuna fino ai nostri giorni. Una bella mano, affinché l’ eco di questa battaglia giungesse fino ai tempi moderni, la diede senz’altro Dante Alighieri con i suoi versi della Divina Commendia, dove descrisse la cruenza dello scontro e i tantissimi morti con la frase-immagine “che fece l’Arbia colorata in rosso”(Inferno, canto X verso 85). E’ infatti nelle vicinanze di questo fiume che avvennero le ostilità tra i Guelfi di Firenze e i Ghibellini di Siena, con la vittoria, nonostante fossero in minor numero, dei senesi. Volendo analizzare la composizione dei due eserciti, dobbiamo constatare che ambedue i fronti avevano diversi alleati provenienti da altre città e, poiché lo scontro tra fazioni guelfe e ghibelline, fu anche uno scontro civile, ci furono senesi che combatterono con Firenze e fiorentini che combatterono tra le file di Siena. Secondo le più recenti e accreditate ricostruzioni, gli eserciti erano così costituiti:

Esercito di Siena: le forze ghibelline, stimate in circa ventimila unità, erano composte da ottomila fanti senesi, tremila pisani, duemila fanti e 800 cavalieri germanici di re Manfredi, 1300 soldati provenienti da Cortona. A loro, si aggiungevano i fuorusciti fiorentini, guidati dal Conte Guido Novello, gli ascianesi, i ternani, i santafioresi e una parte di aretini guidati da Guglielmino degli Ubertini (vescovo).

Esercito di Firenze: comprendeva, oltre a Firenze, Bologna, Prato, Orvieto, Perugia, Lucca, San Gimignano, San Miniato, Volterra, Colle Val d’Elsa, un contingente di Arezzo, condotto da Donatello di Tarlato (di oltre quattromila uomini), uno di Pitigliano (1000 Cavalieri) condotto dal Conte Aldobrandino Rosso ed uno di Campiglia (600 uomini) comandato da Pepo Visconti, del quale facevano parte i fuoriusciti senesi di parte guelfa. Secondo lo storico Tommasi, parteciparono agli scontri anche 2000 arcieri provenienti da Genova, ma non ne troviamo altre conferme. Secondo le cronache del Villani (fiorentino), il totale di questa armata era di circa 33.000 uomini, secondo altri scrittori come Marchionne di Coppo Stefani, il loro numero era di oltre 35.000, secondo Niccola Savini ed il Tommasi, quasi 50.000. Secondo studiosi meno “partigiani” e attenti, sembra che la stima più verosimile si attesti non oltre i 40.000.

I fatti

Il 2 Settembre l’esercito fiorentino, giunto alle porte di Siena nei pressi dell’attuale Taverne d’Arbia e più precisamente nella località di Monselvoli, vi si accampa e manda ambasciatori al Governo senese dandogli un ultimatum. (Secondo altre fonti, l’ambasceria parte da Pievasciata, prima che i fiorentini fissassero il campo a Monselvoli). Comunque sia, l’ultimatum fu letto da alcuni oratori di Firenze ai Ventiquattro, che solevano riunirsi nella chiesa di San Cristoforo, e fu il seguente: “…Volere che le mura di Siena fossero sfasciate in più luoghi, acciocchè dove lor piace l’entrare nella città, possino, com’è di lor piacere; e più voliamo (vogliamo) in ogni Terzo di Siena mettare una signoria, et in Camporeggi (Camporegio) far fortezze per istatico: e di ciò voliamo la risposta; e in quanto non vi paia, aspettate l’esercito con grandissima crudeltà” .Questa memoria ci giunge dalle cronache dell’ Aldobrandini, mentre in quelle del Malavolti, si aggiunge che i fiorentini chiesero anche che Siena cessasse di molestare Montalcino. Il Consiglio Generale, sentito il parere di Provenzano Salvani e del Conte Giordano (messo del Re Manfredi), decise di non accettare la capitolazione ed agli ambasciatori di Firenze fu detto che“sarebbe loro risposto in campo a viva voce”.

Il 3 Settembre l’esercito senese, guidato da Provenzano Salvani esce da Porta San Viene e, percorrendo il torrente Bozzone, giunge e si accampa sul Poggio delle Ropole, località ancora oggi esistente sulle colline opposte a Monselvoli dalla parte più vicina alla città. Nel mezzo tra i due contendenti una grande pianura dove scorrono tre torrenti, la Biena, la Malena e l’Arbia. La Biena e la Malena corrono per un lungo tratto parallelamente, separati da un colle detto Poggiarone e nei pressi dell’attuale località di Taverne, la Malena si getta nell’ Arbia.

Per comprendere meglio questa battaglia occorrerebbe avere davanti agli occhi una cartina geografica. Mi sforzerò comunque di essere chiaro.

La mattina del 4 Settembre, l’esercito fiorentino allarga il campo, distendendosi anche nel Piano delle Cortine che si trova sotto a Monselvoli. In questa pianura scorre la Biena che, percorre tutta la zona da est ad ovest e curva in direzione sud verso S. Martino in Grania (Asciano). Contrariamente a quanto detto dal Paoli, che nel 1870 compie uno dei più accurati e dettagliati studi sull’avvenimento (Volume secondo del Bullettino Senese di Storia Patria Municipale), questo Torrente non si getta nella Malena, ma prosegue il suo cammino fino ad immettersi nell’ Arbia diversi chilometri più a sud, oltrepassato Monteroni.

I senesi invece si dispongono intorno alla collina di Monteropoli e Monteropolino, dalla parte opposta della pianura e spalle alla città. In mezzo, la pianura di Taverne e della Biena. La Malena, che troveremo più avanti, rimane ad est di Monteropoli e di Presciano e proviene dalla zona di Monteaperti e Dofana, sempre di fronte a Monselvoli. Qui si svolge la parte finale della battaglia e da qui ne prende il nome. Infatti l’enorme scempio e strage dei fiorentini avviene proprio sulla Malena, a qualche centinaio di metri dal suo ingresso in Arbia. Fu questo il torrente che vide talmente tanto sangue che colorò l’Arbia di rosso (entrandovi poco più ad ovest). L’ultima resistenza dell’esercito fiorentino fu appunto attorno al castello di Montaperti, di cui oggi rimangono pochissimi resti ed un cippo in cima ad un poggio a perenne memoria.

Sebbene tutti i cronisti siano concordi nell’enorme quantità di vittime, non lo sono altrettanto nel numero, che è comunque stimabile in non meno di tremila morti. Per quei tempi, considerato anche il tipo di armamenti in dotazione alle milizie, fu un eccidio di proporzioni bibliche.

Prima della battaglia, nella notte tra il tre ed il quattro Settembre, i senesi disturbarono gli avversari con leggere scaramucce. Per alcuni cronisti di parte fiorentina, erano scherni, prese in giro, molestie per istigare il nemico alla battaglia (sembra infatti che i Fiorentini volessero ancora trattare col Governo senese ed rimandare il combattimento), ma per altri fu una vera e propria strategia per non far dormire il nemico, in modo che il giorno dopo, durante la battaglia, avesse meno forze. Fatto sta che il quattro Settembre, i senesi decidono di prendere l’iniziativa. Durante la notte, o secondo altri alle prime luci dell’ alba, una schiera formata da almeno duecento cavalieri tedeschi e soldati a piedi (pedoni), lascia l’esercito di Siena e per “celate vie” se ne va lungo la Biena dalla parte opposta del campo di battaglia. Lo scopo era quello di aggirare i fiorentini ed attaccarli sul loro lato sinistro mentre erano intenti a fronteggiare il nemico frontalmente. Le schiere senesi lasciano vettovaglie e quant’altro alle Ropole, passano l’Arbia e dirigono dritti verso Monselvoli. I fiorentini non scendono in pianura, ma aspettano il nemico sul colle per trarre massimo vantaggio dalla posizione più elevata. Tutti i capitani senesi, ognuno al comando dei suoi soldati, si dirigono verso il nemico. Ci sono Provenzano Salvani, il Conte Giordano con seicento cavalieri tedeschi e seicento fanti che reca lo stendardo del Re Manfredi, il Conte Aldobrandino di Santafiore, Arrigo d’Astimbergo con suo nipote Gualtieri, Niccolò da Bigozzo, siniscalco del Comune, Guido Novello coi fuoriusciti fiorentini, compreso Farinata degli Uberti.

La battaglia fu cruenta ed inizialmente favorevole ai fiorentini del Conte Aldobrandino di Pitigliano, che respingevano tutti gli attacchi dei senesi. Il fronte dello scontro si ingrossava con il passare delle ore, ed i senesi, vedendo che non riuscivano a guadagnare terreno sul colle di Monselvoli, fecero entrare in azione anche le truppe dei Terzi e dei popolani. Non sappiamo se ciò fu dovuto ad una tattica o fu per puro caso che, ad un certo punto, una grossa parte dei fiorentini scese dalla collina. Probabilmente, vedendo la battaglia volgere a loro favore, pensarono di dare l’assalto finale e respingere definitivamente i senesi, ma, quando diminuirono il loro presidio su Monselvoli per scendere sulla Biena, dove si stava combattendo, furono attaccati dal Conte d’Arras sulla propria sinistra. L’agguato, inaspettato, ebbe successo e l’esercito guelfo, dovendo agire su due fronti, fu costretto a lasciare Monselvoli e spostarsi a valle dalla parte opposta da dove l’Arras attaccava. Quindi i guelfi lasciano Monselvoli e sono costretti nella “Piana delle Cortine”, sulle rive della Biena tra il colle di Monselvoli e quello del Poggiarone. Secondo la leggenda invece, lo sbandamento dei fiorentini, avvenne per il tradimento di Bocca degli Abati che, ritrovatosi accanto a Messer Iacopo de’ Pazzi, il quale aveva in mano lo stendardo della Cavalleria Fiorentina, pensò bene di tranciargli la mano con un colpo di spada e rigirarsi contro il suo stesso esercito. I guelfi, vedendo lo stendardo caduto e privi di comando, non seppero quali ordini eseguire e si diressero verso il Poggiarone. La collina del Poggiarone, divide fisicamente le valli della Biena e quella della Malena, dove a poca distanza si trovava il Castello di Monteaperti. Non sappiamo ancora per quale motivo, i fiorentini, visibilmente in rotta, decisero di rifugiarsi nell’ altra valle (forse perché pensavano di difendersi meglio o semplicemente perché spinti dai senesi). Qui furono accerchiati e massacrati senza pietà e proprio sulle sponde della Malena avvenne il maggior numero di morti. Tremila circa riuscirono a rifugiarsi dentro al castello di Montaperti, si arresero e furono fatti prigionieri, gli altri rimasero sul campo. Le maggiori perdite furono tra i fiorentini, i lucchesi e gli orvietani. Diverse migliaia di soldati furono legati e tradotti nelle carceri senesi. Qui, ancora una volta, le cifre tra cronisti di Siena e cronisti di Firenze sono molto diverse e si va da un minimo di duemila ad un massimo di diecimila a seconda della fazione.

Visto che la battaglia si era protratta fino al tramonto, i senesi, con le loro vettovaglie, i prigionieri e quanto a loro sottratto come bottino di guerra, rientrarono in città il giorno seguente tra il giubilo del loro popolo. Il Ventura ci descrive molto bene l’entrata dei vincitori in Siena il 5 Sttembre 1260: “Precedeva uno degli ambasciatori fiorentini (l’altro era morto combattendo), che avevano due giorni innanzi fatta l’altera proposta ai Signori Ventiquattro; veniva legato sopra un asino, a ritroso, e i fanciulli l’andavano dileggiando e percotendo con sassi e alla coda dell’asino era trascinato il grande stendardo del Comune di Firenze……veniva poi il Carroccio senese tirato da due grossi palafreni con suvvi lo stendardo reale di Camullia, e dietro ad esso, la folla dei prigioni e bandiere e trabacche e armature e salmerie guadagnate ai vinti e la campana dell’esercito fiorentino…”.


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