SIENA. Da Pierluigi Piccini riceviamo e pubblichiamo.
“Credo sia giusto spiegare perché abbiamo rimesso questo punto del programma di Per Siena alle ultime elezioni amministrative. Ieri mattina si è riunita la commissione dei capigruppo al Comune di Siena, allargata ai rappresentanti istituzionali e sociali che operano direttamente o indirettamente nell’economia con particolare riferimento alle tematiche del lavoro. Riunione in preparazione del Consiglio Comunale sullo stesso tema, il lavoro, che si svolgerà martedì 14. Consiglio richiesto dalle minoranze (Per Siena, Pd e In Campo). La commissione si è rivelata molto partecipata e interessante a partire dall’intervento del Prefetto di Siena che ha introdotto i lavori.
La richiesta che è venuta da più parti è stata quella di non fare di questa occasione di dibattito un caso sporadico, ma trovare la possibilità di ripeterla periodicamente tramite un tavolo permanente di confronto. Individuando, di volta in volta, punti concreti di lavoro e di proposta fra i vari soggetti coinvolti. È stato chiaro alla stragrande maggioranza dei presenti di un vuoto da riempire nel coordinamento cittadino che coinvolgesse l’intero territorio provinciale. Alcuni invitati hanno inoltre evidenziato la necessità che si prevedesse per il futuro la presenza del presidente della Provincia e dei responsabili del sistema scolastico di secondo grado. In quella sede, prendendo la parola, ho fatto presente la possibilità di mettere in campo uno strumento codificato, relazionale e operativo a cui, come Per Siena, abbiamo dato il nome di Distretto Culturale Evoluto, che qui di seguito allego con una nota di approfondimento.
GRANDE SIENA. COSTRUIAMO INSIEME IL DISTRETTO CULTURALE DELLA PROVINCIA DI SIENA
Siena deve pianificare il proprio futuro, e la cultura è lo strumento più importante per farlo. Un territorio senese ampio, grazie a un rinnovato rapporto con altri Comuni, diventerà un Distretto Culturale Evoluto, incentrato sulla produzione artistica e agroalimentare. Saremo un modello per il Paese, con benefici che saranno spalmati su educazione, coesione sociale, economia, ambiente. Mai più, dunque, musei-prigioni della bellezza, eventi estemporanei mal pubblicizzati, presenze di visitatori che si alimentano di una visione superficiale della città. Abbiamo la consapevolezza che il turismo è una risorsa, ma in assenza di visione finisce per imporsi sulle altre funzioni urbane, trasformando il centro storico in un parco-giochi impoverito di attività economiche e tessuto sociale. Siena, per questo motivo, rischia di perdere fascino e capacità di attrazione, ma il declino in atto si può fermare. Non commetteremo l’errore di utilizzare il Campo come palcoscenico per gazebo e manifestazioni che richiamano presenze per un paio d’ore, senza generare ricchezza. C’è un patrimonio culturale immenso dimenticato negli scatoloni, ci sono istituzioni prestigiose ignorate, chiese e musei inaccessibili: tutto questo va valorizzato, creando un cantiere digitale permanente, dando prospettive alle varie forme di arte, sviluppando una produzione culturale locale. Siena tornerà ad essere riconosciuta e ammirata a livello mondiale. Cittadine, Cittadini e imprese saranno protagonisti di questo processo virtuoso. (Programma elettorale di Per Siena per le elezioni amministrative del 2018).
Distretto culturale
Maurizio Giambalvo (Next – Nuove Energie X il Territorio)
Tematizzata per la prima volta alla fine del XIX secolo dall’economista britannico Alfred Marshall nei suoi studi sull’industria localizzata, la nozione di distretto si riferisce a un modello produttivo basato su un sistema di imprese appartenenti a un’unica filiera produttiva all’interno di un’area territoriale circoscritta.
La caratteristica principale di un distretto era, secondo Marshall, l’elevata interdipendenza delle sue imprese, e una sorta di atmosfera industriale fatta di continui contatti, scambi di informazioni e idee, rapida diffusione di innovazioni tecniche e organizzative, accumulazione di capitale sociale, concentrazione di manodopera specializzata, ecc.
Apparentemente condannati a un ruolo residuale dallo sviluppo della grande impresa e della produzione di massa, l’interesse per i distretti industriali si è rinvigorito a partire dagli anni ’70 del XX secolo, nel momento in cui il modello della grande fabbrica fordista comincia a entrare in crisi, sotto la spinta di molteplici trasformazioni interne ed esterne alle società capitalistiche avanzate (saturazione dei mercati, domanda di beni meno standardizzati, Paesi emergenti in grado di offrire manodopera a basso costo, ecc.). In questo contesto si sviluppano e diventano competitive nuove forme di organizzazione dei processi produttivi basate su una rete di piccole e medie imprese radicate in un territorio circoscritto e strettamente interconnesse. Tra i fattori determinanti per la nascita di tali forme distrettuali, che in Italia hanno avuto una particolare fioritura, vi sono senz’altro la presenza di tradizioni produttive locali e habitat sociali in grado di offrire i beni collettivi necessari alla loro crescita.
Dai distretti industriali ai distretti culturali
Sulla scia delle esperienze distrettuali diffuse nel nostro Paese (ad esempio, il tessile di Prato, l’oreficeria di Vicenza, la ceramica di Sassuolo), la definizione di «distretto industriale» ha fatto la sua apparizione nell’ordinamento italiano con la L. n. 317/1991 dedicata agli «interventi per l’innovazione e lo sviluppo delle piccole imprese». Secondo tale legge «si definiscono distretti industriali le aree territoriali locali caratterizzate da elevata concentrazione di piccole imprese, con particolare riferimento al rapporto tra la presenza delle imprese e la popolazione residente nonché alla specializzazione produttiva dell’insieme delle imprese» (art. 36).”Considerati come una forma di sviluppo locale, alla legislazione nazionale sui distretti hanno fatto seguito successivamente vari interventi legislativi di carattere regionale che hanno disciplinato, oltre alle forme produttive distrettuali di tipo industriale, anche distretti di altra natura introducendo la nozione di distretto culturale e più recentemente quella di distretto rurale (ad esempio, nel 2004 la Regione Toscana si è dotata di una «disciplina dei distretti rurali»).
Tale estensione non stupisce se si considerano le trasformazioni che da alcuni decenni interessano le società avanzate: da un lato, la transizione da un modello di crescita basato quasi esclusivamente su produzioni industriali di tipo tradizionale, a un’epoca in cui diviene centrale l’economia intangibile della comunicazione, dei servizi e dell’esperienza; dall’altro, il definitivo passaggio da contesti di produzione e di scambio relativamente circoscritti, a mercati planetari rispetto ai quali molte nazioni europee si trovano in una condizione di sempre minore competitività sui terreni tradizionali di fronte alle impetuose realtà economiche emergenti in varie zone del pianeta.
Questi mutamenti pongono la dimensione culturale tra i fattori strategici delle politiche di sviluppo dell’Unione Europea per il cui futuro diventano risorse cruciali proprio quei beni non riproducibili e localizzati come il patrimonio storico, le stratificazioni culturali e le identità territoriali. Di qui l’obiettivo di rafforzare i sistemi di produzione e valorizzazione dei saperi e in generale le economie della conoscenza.
Nel contesto di tale evoluzione vanno inquadrati la prospettiva adottata dal Consiglio Europeo di Lisbona del 2000, per il quale la ricerca, l’istruzione e lo sviluppo costituiscono i pilastri del cosiddetto «triangolo della conoscenza» su cui fondare il futuro dell’Unione; nonché i numerosi programmi di finanziamento e le iniziative istituzionali di sostegno alla realizzazione di organizzazioni ed eventi per la «rigenerazione culturale» dei territori (riqualificazioni urbane declinate in chiave socio-culturale, Cultural districts, Expo, Capitali culturali europee, reti di musei, Città delle scienze e delle arti, ecc.). La riconversione di aree industriali dismesse e la valorizzazione dei patrimoni culturali locali sono state individuate come leva di sviluppo locale in connessione con altri settori economici, e ai fini della creazione di nuova occupazione, come è osservabile in una delle più significative esperienze di questo tipo, l’Internationale Bauausstellung (IBA) Emscher Park della Ruhr in Germania. Si tratta di un ambizioso progetto di recupero e risanamento di un territorio, dell’ampiezza di circa 800 km2, afflitto dalle dinamiche classiche della deindustrializzazione: declino economico, disoccupazione, degrado architettonico, urbanistico e ambientale, avviato a partire dal 1989 dagli attori del territorio della regione mineraria e siderurgica dell’Emscher, guidati da un consorzio di 17 Comuni. Tra le finalità dell’intervento, che è stato concepito come un «Workshop sul futuro delle vecchie aree industriali», vi sono la riqualificazione ambientale, la riconversione delle strutture industriali in disuso, la promozione di iniziative di comunicazione, di informazione e di attività socio-culturali, la creazione di nuovi posti di lavoro. A distanza di poco meno di venti anni quasi tutti gli obiettivi del progetto sono stati raggiunti.
Se il distretto industriale costituiva in un certo senso la risposta alle difficoltà e allo smantellamento delle grandi fabbriche fordiste, il distretto culturale viene considerato uno degli strumenti produttivi adeguati alla fase di smaterializzazione della produzione industriale e di affermazione della cultura intesa, non solo in quanto incarnazione della vita materiale, spirituale e sociale di una comunità, ma anche quale risorsa strategica per una crescita economica sostenibile del territorio in cui la comunità risiede.
Il distretto culturale
Anche se quello culturale non è definibile tout court come una forma specifica di distretto industriale, esso ne eredita tuttavia alcuni tratti fondamentali e imprescindibili, quali il legame tra il prodotto e il territorio, la qualità dei beni e dei servizi prodotti, lo scambio anche informale di saperi e di competenze, una forte presenza pubblica a sostegno della produzione, in questo caso, culturale.
In cosa consiste un distretto culturale e qual è la sua finalità specifica? Sebbene il dibattito sulla natura e le caratteristiche dei distretti culturali sia ancora in corso e numerosi siano i modelli proposti e studiati (distretti culturali industriali, museali, turistici, urbani, ecc.), esso si può definire in generale come un insieme organizzato di istituzioni, reti associative e imprese che producono un’offerta integrata di beni e di servizi culturali di qualità, legati a un territorio circoscritto, caratterizzato da un’identità ben definita, da un’alta densità di risorse ambientali e culturali di pregio, e abitato da una comunità locale coesa rispetto alle proprie tradizioni culturali.
La costituzione di un distretto implica la presenza di un sistema culturale locale, cioè di un ricco tessuto socio-culturale e ambientale preesistente, a partire dal quale sia possibile avviare quei processi di valorizzazione (ma anche di re-invenzione) dell’identità locale e di sostegno alla produzione culturale in grado di promuovere sia lo sviluppo economico e la sua sostenibilità, sia la riqualificazione e il miglioramento della vivibilità complessiva di un dato territorio. Sono questi infatti gli obiettivi primari in vista dei quali assume senso l’integrazione delle risorse, dei servizi di accoglienza e di fruizione, dei centri di competenza e di ricerca, delle filiere di prodotti tipici e artigianali.
Occorre sottolineare tuttavia che l’esistenza di sistemi culturali locali non comporta automaticamente la loro trasformazione in distretti. Il distretto culturale come modello di sviluppo territoriale autonomo e sostenibile non sorge spontaneo, ma il più delle volte è il risultato di un progetto, di appositi investimenti e di strumenti di governance culturale. La disponibilità di beni storici, artistici, architettonici, infrastrutturali e ambientali è infatti una condizione necessaria ma non sufficiente per l’avvio di processi virtuosi di valorizzazione delle identità e delle tipicità culturali e di promozione dello sviluppo territoriale.
La scarso numero di esperienze compiute di costituzione di distretti culturali in Italia, a fronte di un’estrema ricchezza e varietà di culture locali e di risorse, rappresenta una conferma del fatto che le potenzialità espresse dai territori richiedono uno sforzo progettuale e ideativo per accompagnare le comunità nella elaborazione di obiettivi di sviluppo culturalmente sostenibili e condivisi, al di là della spinta alla mera commercializzazione dei contesti e delle tradizioni locali e dei richiami generici alla auto-imprenditorialità diffusa.
Tra gli esempi di interessanti percorsi in fieri nel nostro Paese, oltre a quelli già consolidati come il distretto culturale delle Langhe (sviluppatosi a partire da tradizioni, culture e saperi della produzione enologica), possono essere citati il progetto per un distretto culturale evoluto nella città di Faenza, che intende raccogliere l’eredità del distretto industriale della ceramica, e l’esperienza della Val di Noto che, a partire dal riconoscimento da parte dell’UNESCO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura), ha recentemente istituzionalizzato il distretto culturale del Sud-Est della Sicilia «Le città tardo barocche del Val di Noto».
Problemi aperti
Esistono alcune questioni problematiche legate ai distretti culturali, non solo alla derivazione dal modello industriale originario, ma anche al ruolo attuale del nostro patrimonio storico-artistico rispetto alla complessiva evoluzione della società italiana.
“Vale la pena di sottolineare due elementi critici che rischiano di condurre a una concezione che banalizza e ingessa la cultura stessa nel tentativo di renderla turisticamente appetibile: in primo luogo, i rischi di accettazione acritica di visioni dello sviluppo locale, per le quali il patrimonio artistico e monumentale costituisce semplicemente il materiale su cui basare una economia della rendita; e, parallelamente, i vincoli posti da un contesto poco innovativo (come è attualmente l’Italia) in cui si tende a concepire la cultura come una sorta di «giacimento» da sfruttare in chiave commerciale e turistica. Il pericolo, da questo punto di vista, è dunque quel processo di «disneyficazione» che ha già colpito molte città d’arte italiane, cioè la trasformazione di contesti, un tempo vivi e innovativi culturalmente, in parchi ricreativi a tema, con cittadini manutentori-gestori, invece che abitanti e produttori di senso e di nuova cultura.
La sfida che i distretti si trovano a fronteggiare nell’immediato futuro sta dunque nel tentativo di declinare la cultura, non come mero prodotto da vendere, bensì come produzione da alimentare e mettere in circolo, valorizzando le risorse esistenti senza trascurare quei processi di innovazione e di fermento che stanno alla base dell’economia della conoscenza e della produzione culturale e che, stratificandosi nei secoli, hanno contribuito a produrre proprio quei beni che oggi si intendono valorizzare”.