C’è tutta una filiera nel lavoro per il contrasto al coronavirus
a cura di Augusto Mattioli
SIENA. C’è tutta una filiera nel lavoro per il contrasto al coronavirus. Dai medici che ogni giorno lottano in ospedale per contrastare l’epidemia, agli infermieri anch’essi impegnati nei vari settori, a chi lavora nelle ambulanze , al farmacista che in un negozio sprangato deve rispondere alle richieste di tante persone, fino al medico di guardia, i piu giovani di solito impegnati quando i medici di famiglia non lavorano. Una filiera il cui impegno deve essere ancora di più apprezzato. Con Federico Franchi, responsabile AREA Covid del policlinico delle Scotte, che ringraziamo per la disponibilità, iniziamo una serie di interviste sul tema.
Quando ha avuto il suo primo contatto con un malato covid?
Il quattro marzo ho conosciuto in consulenza il primo paziente affetto da COVID. Quello stesso paziente sarebbe stato trasferito nella terapia intensiva COVID due giorni dopo, sedato e intubato per essere ventilato in maniera artificiale. È stato il primo dei nostri pazienti a essere ricoverato in terapia intensiva. È trascorso da allora solo un mese e mezzo, ma è come fosse passato un anno per come è stata “movimentata” la vita in questo periodo per tutti coloro che lavorano nell’area COVID. Il paziente è stato fortunatamente da poco dimesso e sta bene.
Qual è stato il suo primo pensiero?
Credo che per tutti gli operatori che si sono avvicinati a un paziente affetto da COVID, o sono anche solo dovuti entrare in una COVID Unit, il primo sentimento è la paura; paura di contagiarsi, e di essere a loro volta fonte di contagio per gli altri e per chi ci aspetta a casa. Questa paura dura pochi minuti, perché la testa torna immediatamente a “occuparsi” della persona che hai davanti. Riaffiora poi quando ci allontaniamo dal paziente per uscire dall’area di isolamento. La fase della “svestizione”, in cui ci togliamo i dispositivi di protezione individuale (DPI), è la più rischiosa in termini di contagio ed eseguiamo con massima attenzione tutti i passaggi della procedura.
Quali sono state le difficoltà iniziali?
Sicuramente lavorare vestiti con i dispositivi di protezione individuale. Tute, camici, maschere, occhiali, visiera. Fa caldo, i movimenti sono impacciati, le visiere e gli occhiali si appannano, stringono e, soprattutto le prime volte, provocano dolore sul volto e sulla testa. Togliersi tutti i DPI alla fine della visita o del turno non è di per sé difficile; farlo però con la paura di contagiarsi è estremamente ansiogeno.
Com’è la sua giornata di lavoro?
Non è molto diversa dalla routine pre-COVID se non per due aspetti fondamentali. La nostra Direzione ha organizzato l’Area COVID in modo che il team medico che si occupa dei pazienti sia un team multidisciplinare, costituito da medici di rianimazione, pneumologi, cardiologi, infettivologi, reumatologi e medici internisti. Questo garantisce al paziente un altissimo standard di trattamento e ci insegna ad affrontare i problemi osservandoli da più punti di vista. L’altra differenza rispetto alla routine è lavorare vestiti da “astronauti” a causa dei DPI.
Qual è l’insegnamento che possiamo ricavare da questa esperienza sia sotto il profilo medico che umano?
Al momento sotto il profilo medico gli insegnamenti riguardano per lo più gli aspetti organizzativi e l’approccio multidisciplinare al paziente. La malattia è ancora in parte sconosciuta ed è presto per trarre conclusioni dal punto di vista strettamente clinico. Dal punto di vista umano gli insegnamenti sono pressoché “infiniti”. COVID ha isolato un po’ tutti, tenendo ognuno lontano da qualcosa o da qualcuno. I pazienti dai propri cari; i lavoratori (sanitari e non solo) dalle famiglie; tutti dalle proprie abitudini, dalla normalità. Se mai ci fosse stato bisogno di ricordarcelo, ha evidenziato la nostra fragilità. Ma se di questo eravamo già coscienti, COVID ci ha fatto riflettere su concetti che ritenevamo scontati, come ad esempio l’idea di libertà e di solidarietà.