di Andrea Pagliantini
SIENA. Nel 2021, nei giardini della Lizza – di fronte al Palazzo di Giustizia – venne piantato un ulivo in ricordo di coloro a cui la mafia aveva rubato la vita.
In questo momento quella pianta emana un delicato profumo che evoca il limone – sentore che caratterizza l’ulivo – il cui polline si espande con il vento, fecondando le piante consorelle che si trovano intorno.
Fendono il ricordo e il cuore quelle immagini che rievocano estati lontane, quando il sangue era ogni giorno al centro delle notizie,
falciando chi non si piegava, chi era di ostacolo, o chi (per lotte interne a quel mondo malato), si metteva di traverso per interessi
divergenti.
Magistrati, politici, personale delle forze dell’ordine, sindacalisti, il piccolo Santino Di Matteo, tenuto in ostaggio per quasi due anni e
poi ucciso e sciolto nell’acido.
L’ulivo in fiore, spande il suo polline e si propaga, metafora di un’etica e di una coscienza, che forse non ha la stessa feconda pulizia
di ragionamento e di azione.
Notando nel quotidiano quanto la moneta non abbia odore e quanto si sia disposti ad alzare l’asticella del giusto, della clientela, del favore,
sorge il dubbio che, se la mafia non ha vinto con le armi, ha vinto con la sua “cultura e fascino” corruttivo.