Marco Cioni, presidente Fipe Siena: “La tazzina di caffè è un simbolo di democrazia e italianità”
SIENA. “Siamo soddisfatti che ci sia stata la formalizzazione della candidatura del caffè espresso italiano a patrimonio immateriale dell’umanità. Il caffè è simbolo dello stile di vita di un paese e di una comunità e come tale ha la credibilità e il prestigio necessari per concorrere a diventare patrimonio immateriale dell’umanità”.
Commenta così Marco Cioni, presidente Fipe Confcommercio Siena l’atto formale della candidatura all’Unesco firmato il 23 marzo anche da Confcommercio -Fipe presso il Ministero delle Politiche agricole e forestali. La campagna di sostegno alla candidatura si aprirà ufficialmente domani sabato 26 marzo, in occasione della giornata nazionale del “Rito del caffè espresso italiano”.
Secondo l’indagine di Fipe-Confcommercio, solo in Toscana sono almeno 370 milioni all’anno i caffè espresso che vengono consumati al bar. “La candidatura vuole essere anche un’occasione di rilancio per un settore martoriato dalle misure restrittive che per oltre un anno e mezzo hanno messo a repentaglio la sopravvivenza di questa modalità di consumo – fa notare Cioni – Ora che ci stiamo rialzando, seppur con fatica, la promozione del rito del caffè espresso a patrimonio dell’umanità rappresenta un’ulteriore iniezione di fiducia alla quale la Fipe-Confcommercio contribuisce con convinzione insieme al Consorzio e al Ministero. Anche perché, è bene ricordarlo sempre, questa è una bevanda democratica, che identifica il nostro stile di vita e come tale va promossa e valorizzata”.
In Toscana esistono oltre ottomila bar-caffetteria (8.109), per un totale di quasi 21mila occupati. In provincia di Siena si contano 951 occupati e 541 bar, in centro a Siena nel 2021 si contano 263 tra bar e ristoranti, mentre fuori dal centro ce ne sono 314. “Prima della pandemia il settore era ancora in fortissima espansione, anche perché i nuovi ritmi di vita e di lavoro avevano fatto crescere in maniera esponenziale i volumi di fatturato del “fuori casa”: sempre più persone avevano l’esigenza di consumare colazione e pasti in un locale, per non parlare del rito dell’aperitivo a fine serata – fa notare Cioni – Il Covid ha imposto un freno fortissimo alla socialità, ai viaggi e di conseguenza anche allo sviluppo del fuori casa. E anche ora che stiamo tornando alla normalità se ne continuano a vedere gli effetti. Basti pensare allo smart working”.
Ma la categoria non è disposta a mollare. “Per qualcuno il contraccolpo è stato fortissimo e ha deciso di chiudere o di ridimensionare l’attività, altri invece si sono attrezzati per rispondere alle nuove esigenze, ad esempio con le consegne a domicilio di colazioni e pasti negli uffici. Quando il mercato è in crisi, è il momento per fermarsi e ripensare da capo all’impresa, puntando sulla formazione e sulle novità”.
Altra doccia fredda è arrivata con il rincaro di energia e materie prime: secondo la Fipe, nove imprenditori su dieci hanno registrato un aumento della bolletta energetica fino al 50% e del 25% per i prodotti alimentari. Nel frattempo, secondo le stime dell’associazione di categoria, per 6 imprese su 10 il ritorno ai fatturati pre-Covid non arriverà prima del 2023. “Molto dipenderà ovviamente anche dagli sviluppi della situazione internazionale. Il conflitto in Ucraina ha contribuito ad accelerare fenomeni depressivi sui consumi, proprio quando la gente aveva voglia di lasciarsi alle spalle il periodo duro della pandemia”.
L’incertezza si acuisce a causa della minore propensione degli italiani a spendere in bar e ristoranti dovuta principalmente, secondo il 43% degli imprenditori, agli effetti del carovita e al perdurare di un indice di fiducia negativo. Ma gli aumenti dei prezzi ai consumatori restano contenuti: nel febbraio 2022 lo scontrino medio è salito solo del 3,3% rispetto a un valore generale dei prezzi aumentato del 5,7%. E più della metà di bar e ristoranti (il 56,3%) non prevede di rivedere a breve il rialzo dei propri listini prezzi.
Il lavoro resta l’emergenza più grave generata dal Covid: solo nel 2020 la pandemia ha mandato in fumo nei pubblici esercizi oltre 20mila contratti rispetto al 2019 (193mila occupati in meno a livello nazionale). A rimetterci soprattutto gli stagionali, perché il blocco delle attività ne ha impedito l’assunzione. Ora mancano proprio queste figure, che per quanto lavorassero solo pochi mesi all’anno erano preparate alle mansioni da svolgere. Il Covid li ha spinti a cambiare prospettiva di vita, a cercare attività più “sicure”. E adesso che l’attività sta ripartendo, soprattutto con l’arrivo della bella stagione, si fa fatica a trovare personale adeguato. Per 4 imprenditori su dieci mancano candidati e competenze adeguate per mestieri come il cameriere di sala, lo chef, l’aiuto cuoco, il pizzaiolo. Per contratti seri, anche a tempo indeterminato, e una prospettiva di carriera certo impegnativa, perché si lavora quando gli altri sono in vacanza o festeggiano, ma piena di soddisfazioni”.