Dalla riflessione di Bertrand Russell a quella di Marcello De Cecco

di Mauro Aurigi
SIENA. Io, proprio io, laico e non credente incallito, odio dal profondo del cuore che la festa per ricordare la nascita di un Bambino sia degenerata nel più brutale, sconcio, sfrenato e materialista consumismo che sia stato possibile. Perfino tutti col sorriso obbligatoriamente stampato sulla bocca solo perché … perché? visto che nessuno celebra più la nascita del Bambino, ma celebra il periodo dell’anno in cui, più che in qualsiasi altro periodo, esplode (ed è tutta un’esplosione che ci bombarda almeno da due mesi prima della ricorrenza ufficiale) la voglia e l’obbligo di spendere, acquistare e consumare, ballare e anche cantare ossessivamente sdolcinati motivetti musicali.
E che c’entra questa esplosione di felicità forzata quanto immotivata, visto che il Bambino non ne è più il protagonista e che, anzi, viene del tutto dimenticato? Sembra che il paganesimo si sia riacquistata la sua grande festa del Sol invictus, ossia del dio Sole dei Romani che in quei giorni di dicembre arrestava la sua discesa verso l’orizzonte e le giornate ricominciavano a allungarsi. Il nascente e vincente cristianesimo, infatti, usava spodestare, con una certa disinvoltura e molto pragmatismo, le festività del calendario pagano per riconvertirle in ricorrenze cristiane (vedi anche la festa dei raccolti del 15 agosto trasformata in festa della Madonna).
Il Natale di altri tempi
Ricordo che quando ero cittino io il Natale non era una grande festa. Veniva solo celebrato con l’allestimento del presepe e la messa notturna. Il giorno dopo si mangiava e beveva poco più e poco meglio che nelle normali domeniche. I regali poi – solo per i bambini e niente per gli adulti – non li portava Babbo Natale, ma li portava la Befana (in memoria dei Re Magi), con tanto di calze appese alla cappa del camino (quanto carbone!). E ciò almeno fino a quando anche la cappa del camino non fu sacrificata per la più razionale cucina economica.
No, allora la festa più importante non era il Natale, ma la Pasqua, ossia la Resurrezione/Rinascita (evidentemente ritenuta più significativa della sola Nascita) con tanto di gita primaverile fuori di porta.
Il primo albero di natale che si vide a Siena, o che almeno vidi io, fu all’allora Pensione (oggi Albergo) Chiusarelli di cui era direttore un mio zio e che era stato requisito dal Comando delle truppe americane, l’anno 1945, quando la seconda guerra mondiale finì.
Tuttavia non ce l’ho con gli Americani che hanno tutto il diritto di celebrare le proprie tradizioni come meglio a loro pare, ma con gli Italiani che dal 1945 in poi sono stati tutti in fregola per assomigliare il più possibile al Grande Badrone Biango ghe sdà di là dal mare. Si pensi solo a come è stata adottata anche la misteriosa festa di Halloween, o l’Open day o il Black friday ecc., senza che nessuno ce ne abbia spiegata la necessità. Una forma di servilismo culturale che è il peggiore dei servilismi, perché al servilismo imposto con la forza ci si può sempre ribellare, ma al servilismo accettato, anzi ricercato con entusiasmo, nessuna resistenza è possibile.
Bertrand Russell e Marcello De Cecco
Quello che è stato forse il più importante pensatore del passato secolo, Bertrand Russell, l’ha spiegato molto bene: “il nazionalismo politico è ripugnante perché sfocia nel fascismo, ma il nazionalismo culturale ha diritto di essere difeso e sostenuto da ogni popolo degno di questo nome”. Già, ma bisogna essere un popolo degno di questo nome non una plebe, bisogna essere cittadini, non sudditi.
E a questo proposito voglio aggiungere questo ricordo. Nel 1994 fui ricevuto all’Università La Sapienza di Roma da Marcello De Cecco, notoriamente e meritatamente molto ricordato a Siena (era stato nella Deputazione del Monte in quota Pci, ma se ne era dimesso poco dopo per le forzature che il partito voleva imporgli). Ero andato da lui per perorare un aiuto nella causa della resistenza cittadina alla privatizzazione del Monte dei Paschi, avendone previsto il conseguente e disastroso tracollo. Il prof mi lasciò parlare e poi mi disse: “Sono arrivato a Siena nel 1957 come studente proprio nel periodo natalizio. Avevo lasciato il mio paesello d’Abruzzo che era tutto un tripudio di luci e colori e sono arrivato a Siena che, nonostante le festività, era priva di qualsiasi luminaria e praticamente nessun negozio aveva parato la vetrina a festa. Insomma niente che ricordasse il Natale. Mi dissi: qui vive una razza umana di intelligenza superiore”. Doveva essersi accorto che avevo in faccia chiaramente stampato un grande “Embè?”, perché, dopo una breve pausa concluse laconicamente: “Mi ero sbagliato”. E con questo mi congedo.