L'intervento della rappresentante degli studenti all'inaugurazione dell'anno accademico
SIENA. E mentre Rosalia Selvaggi, presidentessa del Consiglio studentesco, in rappresentanza degli studenti, partecipava all’inaugurazione dell’anno accademico e denunciava i limiti dell’Università nel suo intervento, che riportiamo sotto, gli studenti di Link Siena partecipavano ad un flash mob in Piazza Matteotti, quasi a sostegno delle accuse di Selvaggi.
L’intervento di Rosalia Selvaggi
Buongiorno a tutte e tutti voi. Per evitare di apparire superficiali come spesso descrivono noi giovani, vorrei cominciare notificando che, nel tempo estremamente ridotto che ci è stato concesso sarà, a nostro avviso, proibitivo analizzare come l’intenso periodo storico in cui ci troviamo abbia influito sulle situazioni e sulle problematiche di studenti e studentesse. Ma noi non demordiamo. Anzi, mi chiedo anche, se non si tratti di una infelice ma calzante metafora della marginalità che, paradossalmente, quando si parla di università e formazione, vede coinvolta la componente studentesca tutta. Ma a questo ci arriveremo.
Il 2020 è stato un anno in cui – fin quasi dal suo inizio – tutti gli aspetti della vita sociale ed economica sono stati rivisitati e vissuti in un’ottica emergenziale, in modo del tutto inatteso e mai sperimentato. Qual è la normalità che il Covid ha tolto a studenti e studentesse? Come ha esacerbato le problematiche dell’università? Ha creato dei disagi nell’approccio alla didattica, ha alimentato il deteriorarsi dei rapporti sociali e ha messo in luce una serie di problematiche già esistenti legate alla sfera psicologica/psichiatrica mosse dal sistema meritocratico, classista e sessista, che impera all’interno dell’Università.
La didattica a distanza. Se n’è parlato tanto. E sempre in termini di aut-aut, di contrapposizione mutualmente esclusiva tra questa e università in presenza. E se la soluzione non fosse nell’opposizione, ma nell’integrazione? Se le cose andassero di pari passo, quale sarebbe il risultato? Concorrerebbero insieme a creare un equilibrio di inclusività e integrazione sociale all’interno degli spazi universitari, garantendo a tutte e tutti di avere accesso ai saperi, senza divari né disparità. Ma era davvero necessaria una pandemia affinché fosse l’Università a plasmarsi sugli studenti e non gli studenti su questa? La didattica a distanza non ha sostituito l’Università in presenza e non deve esser vista come soluzione definitiva, piuttosto come un ulteriore mezzo a disposizione di studenti e studentesse per l’accesso ai saperi. Bisogna che il nostro, e il vostro, fine ultimo sia la formazione e la crescita degli studenti. Lo studio non deve più essere un privilegio per pochi, ma un diritto di tutti. Si parla del nostro futuro, ma si continua a farlo senza di noi. Siamo i giovani coinvolti nel dramma della “fuga da un paese che non valorizza il merito (ma merito di cosa?)”, che devono fare gavetta, i self-made men (e mai women) a cui viene ripetuto costantemente lo slogan “se ti impegni, ce la fai”. Siamo studenti e studentesse a cui, da un anno a questa parte, è stato detto che andava tutto bene, che l’università sarebbe ripartita e che continuare a pagare migliaia di euro tra tasse, affitti e libri era normale. E invece siamo costretti ad abbandonare gli studi perché l’istruzione nel nostro paese è un lusso, e mai un diritto. Siamo studenti e studentesse di un’università in cima alle classifiche del Censis, gli stessi e le stesse che i dati ISTAT descrivono come “eccellenze”. Ma questa eccellenza che prezzo ha? Abbiamo vissuto una pandemia e abbiamo visto il nostro futuro diventare sempre più precario, con l’unica certezza di vivere in un Paese dove il merito viene utilizzato per giustificare ingiustizie e classismo; dove si analizzano dati sulle disuguaglianze e si propone come soluzione una maggiore “competitività”, la stessa che sta trasformando le università in palestre di sfruttamento e in cui ci insegnano a riprodurre un modello di sviluppo che, guarda caso, è lo stesso che sta distruggendo il nostro pianeta. Ci hanno ripetuto che non c’erano i soldi: per l’istruzione, per la ricerca, per creare lavoro, per la sanità, per i territori e per contrastare il disastro ambientale; che l’unico welfare ancora esistente su cui possiamo contare è la nostra famiglia. Basti pensare all’ultima legge di bilancio, al PNRR in cui non si fa il minimo accenno a università e ricerca.
E allora ci chiediamo: cosa ha intenzione di fare questo governo per contrastare davvero diseguaglianze, povertà, precarietà, abbandono scolastico e universitario? Che nessuno si aspetti dei ringraziamenti né di trovarci in silenzio. Forse è arrivato il momento di ascoltarci. L’idilliaca narrativa meritocratica, costruita attorno all’università, ha rafforzato l’idea di merito come criterio valutativo naturale (quasi scontato). E ha alimentato un sistema in cui il peso della continua valutazione si alterna con la paura del fallimento e un senso di inadeguatezza; in cui non è concesso avere fragilità, ma per cui bisogna essere performanti, sicuri, sempre impegnati e attivi per non perdere “l’ascensore sociale”. E – mi raccomando – mai dimenticare il sorriso stampato sul volto! In fondo, le giornate trascorse sui libri, la corsa irrefrenabile – guai ad arrestarla! – al raggiungimento dei CFU e lo svolgimento di lavori sottopagati solo per potersi “guadagnare” il diritto allo studio fanno parte del logico e legittimo processo catartico per un fine più alto: il mito dell’affermazione sociale Un’università, che non fornisce supporti allo studio né garanzie, non sta facendo altro che ricalcare le disuguaglianze già presenti nella nostra società “delle performance”. La giustizia sociale è un obiettivo collettivo, che non può essere risolta sul piano individuale. In conclusione, vorrei analizzare l’altra faccia della narrazione dello studente prodigio e meritevole, che ha portato ad un aumento del disagio psicologico, culminato nella crescita esponenziale del tasso di suicidi tra giovani in Italia.
Come se ciò non bastasse, anche la pandemia ha fatto la sua parte, causando difficoltà nella prosecuzione degli studi di ognuno ed ognuna di noi, con un riscontro evidente anche sui rapporti sociali, sul benessere e sulla salute della componente studentesca tutta. La tutela della salute mentale individuale e collettiva deve essere un imperativo da non dimenticare, soprattutto in Università. Il disagio psicologico non è una questione individuale, ma ha radici sociali ed è nel sociale che risiede la soluzione. Eppure, in Italia la salute mentale non è veramente riconosciuta come un diritto, si fa fatica a parlarne; si tende ad inquadrarla come una questione privata, di cui a tratti vergognarsi, e non come un tema sociale. Si parla di ripartenza, allora ripartiamo dall’Università. Ripartiamo dalla considerazione dello studente, dall’abbattimento delle disparità e da tutto ciò che si è detto in questi minuti.
Concludo augurando un felice anno accademico a tutte e tutti e ringraziando la visita del Presidente Mattarella.
Grazie dell’attenzione.