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di Silvana Biasutti
SIENA. Ho un ricordo toscano d’annata. Di quando la Toscana che immaginavi – quella ideale dove noi del nord cifiondavamo appena possibile per respirare una vita a misura d’uomo – si sovrapponeva perfettamente a quella che incontravi quando ci arrivavi: approccio brusco, paesaggi intatti, schiene dritte, cibo semplice e poche balle.
A quei tempi (anni e anni sono ormai trascorsi) frequentavo una Toscana meglio raggiungibile di quella in cui ho abitato anni dopo, era poco oltre la “frontiera” di lucchesia, nel pisano, in una campagna povera e felice di incontrare chi portava un po’ di soldi, mangiando in trattoria e comprando qualche semplice prodotto genuino, allora davvero locale anche se meno appariscente, meno benvestito, meno pubblicizzato. Stavo in un podere senza elettricità, in una proprietà in cui il discendente di una famiglia che ha dato al paese un partigiano famoso (c’è pure una canzone), coltivava la terra. Era davvero una Toscana dei sogni, così idealizzata nel ricordo che non so se ritrovandola com’era tornerei – oggi – a innamorarmene.
Altri tempi davvero; il proprietario era stato un account executive in una agenzia di pubblicità a Milano, poi gli era preso un colpo di “sliding doors” e aveva venduto tutto quello che aveva per acquistare una ventina di ettari con tre fabbricati. Aveva mani d’oro; uno di quei tipi che cercano nei rottami e ricostruiscono una cinquecento raccogliendo e recuperando pezzi di ricambio trovati qua e là. Un orto enorme – fragole, pomodori, alberi da frutta e tutto quello che serve a vivere senza quasi acquistare cibo. Furono presto eleganti barattoli di pesche sotto vino (prodotto dall’azienda agricola), marmellate di fragole, salsine di pomodoro e perini interi in bei barattoli di vetro. Tutto cresceva nell’orto (davvero), tutto era lavorato in un laboratorio piccolo, perfetto e funzionalissimo, costruito dal proprietario e dalla compagna (che qualche anno fa, dopo la morte di lui, era ancora lì sulla loro terra). Anche il laboratorio, come le luci e i pochi elettrodomestici dei tre poderi in cui abitavano, e che affittavano, era alimentato da un ingegnoso generatore costruito con pezzi recuperati.
Questo ‘cameo’ toscano mi è tornato in mente oggi, mentre mi è riapparso in rete il link a un articolo dal titolo suggestivo “La bicicletta che alimenta la tua casa per 24 ore, pedalando un’ora al giorno”. D’accordo il titolo non è opera di un pubblicitario consumato, e nemmeno di un titolista in gamba, tuttavia il contenuto è molto suggestivo già di per sé, figurarsi in questa Italia in balìa di non si sa bene chi, dove si continua a dire che le cose stanno migliorando – e sarà di certo vero per qualcuno -, ma girare per le città di sera è desolante e sembra quasi di sentire l’eco del poema di T.S. Eliot.
Leggendo dell’energia pulita prodotta pedalando la bicicletta, mi è tornato in mente il lavoro dell’ex-account che faceva il contadino e l’imprenditore di sé stesso, e leggere della possibilità di auto produrre l’elettricità mi ha fatto pensare che potremmo liberarci dalla schiavitù di una bolletta – in cui continuo a leggere che mi costa di più il “trasporto del contatore” rispetto all’energia che ho consumato -; potremmo così liberarci anche della moltitudine di truffatori legalizzati che telefonano a casa proponendo fornitori alternativi a quello di cui ci si serve; potremmo soprattutto “produrre” lavoro utile a tutti: a chi lo svolge perché sarebbe retribuito, al nostro paese che si ritroverebbe ricco di energia sostenibile e pulita, alla terra che non avrebbe ricadute inquinanti, a tutti quelli che non hanno un lavoro, perché avrebbero la possibilità – anche solo temporaneamente – di darsi un’occupazione utile e dignitosa.
Un’idea balzana? Forse no, perché quel signore che pedalando produce l’energia per la propria abitazione non mi sembra uno stravagante, mi sembra uno che sfugge ai ricatti dei grandi produttori che bene o male decidono per conto nostro …
Un’utopia? Forse, però pedalare (per produrre energia) potrebbe diventare una moda, una moda utile a tutti.
Vedendo il signore a cavalcioni della bici casalinga che pedala, ho pensato che potremmo metterci tutti a pedalare. Anche le signore che vedo su #sciuragram?, certo anche loro con tailleur e pelliccia! Anche le donne gravide?, certo fa solo bene alla salute, basta non forzare troppo. Tutti quanti, dunque? Ma sì, certo tutti quanti, con grandi benefici per la salute (una o due ore al giorno di pedalate, perfette per smaltire sovrappeso), per l’umore e per il portafoglio. Tutti potrebbero (dovrebbero?) pedalare. Anche i ragazzini, così imparano, dopo la scuola, a contribuire al benessere collettivo, e i nonni ovviamente, e i disoccupati (per loro potrebbe essere un lavoro socialmente utile), gli inoccupati, e ovviamente i migranti, invece di stivarli come pecore e lasciarli senza speranza e senza un futuro (anche loro svolgerebbero un lavoro utile, non solo socialmente, ma anche per sé stessi: con retribuzione e contributi). Tutti, salvo i malati e i decrepiti, gli snob e i fannulloni. Si alleggerirebbe la nostra impronta ecologica, aumenterebbe, in modo pulito, la produzione di energia, aumenterebbe il pil.
A Natale regaliamoci un’idea. Pedaliamo.