di Andrea Pagliantini
GAIOLE IN CHIANTI. Nel Chianti, gli stravolgimenti che nel corso dei secoli hanno mutato il corso delle cose si sono sempre avvertiti come un eco in lontananza.
Poco cambiava nella vita quotidiana delle persone l’essere retti da una Repubblica sulle rive dell’Arno o sotto un Granducato che reggeva quasi l’intera regione; essere amministrati da un Granduca fiorentino o lorenese, diventare parte di uno stato unitario più importante retto da una corona, finire nelle trincee del Carso contrapposti a “nemici” che nella vita seminavano, mietevano, macinavano il grano, facevano frasca e fascine per i forni, garantivano il pane alla famiglia.
Olio di ricino e manganello erano un affronto alla dignità del lavoro, all’essere persone.
La Repubblica comportava mettersi il vestito buono, essere fieri di certi giorni, amici nelle date importanti sia civili sia religiose. Condividere la fatica, condividere i giorni.
Lo spolamento delle campagne fra gli anni ’50 e ’60 del Novecento, mette a soqquadro un mondo di secoli passati piano, caratterizzati da generazioni avvezze ai campi. Fioriscono piccole attività artigianali, piccole industrie per produrre beni e arnesi che di fatto contribuiscono non poco alla qualità della vita. Necessitano di manodopera.
Unità poderali e casali si svuotano, in pochi anni, cambia ciò che la mezzadria aveva retto per secoli. Si produce un cambiamento epocale.
Il Chianti con lo spiffero alle finestre, l’acqua alle fonti con le mezzine, gli animali nelle stalle sotto casa, i grandi camini in cui ricoverarsi prima di entrare nel gelo delle camere, le cene con l’incognita delle intemperie e delle stagioni, dimezza la sua popolazione. Tutto pare destinato all’abbandono, anche perchè la vendita da parte delle fattorie di quei casali rimasti vuoti, anche per non tante lire, genera un rifiuto in chi li aveva per tanti secoli vissuti e abitati.
Finchè alla fine degli anno ’60 iniziano ad affacciarsi viaggiatori e sognatori, affascinati dalla ruspantezza dei luoghi e dalla vita in campagna. Iniziano ad arrivare persone che comprano i casali abbandonati, li dotano di un minimo di comodità, vedono queste case come oasi, vi trascorrono momenti lieti.
Non è un caso che commercialisti milanesi, avvocati tedeschi, nobili inglesi, dottori dalla Danimarca, magistrati livornesi, prendano casa nel Chianti e si mescolino nel quotidiano con la popolazione locale, eleggendo alcuni luoghi leggendari come ritrovo, affascinati dal meccanico che parla alle motoseghe, dall’uomo che vive sui trattori, dalla gente che taglia i boschi, dal muratore che ripara le case o dalla bottegaia che serve un bicchiere di vino a mescita e un paio di etti di acciughe.
In quel Chianti affascinante in cui si incastravano storie di saggezza del lavoro a fabbri intellettuali, pensatori con la vanga o con la penna, racconti e scambi in mezzo a vino, pane e salame, entra la nota crepuscolare di un film di Bernardo Bertolucci, girato qualche anno dopo l’arrivo da Milano a Vertine di Elena Trissino.
In quel Chianti ancora ruspante e vivo, a poca distanza dagli anni del gran meretricio, si inserisce la figura minuta di Elena, che occupa l’edificio più ampio del paese e prosegue il suo percorso artistico e culturale traendo spunto dai silenzi e dalla bellezza di una zona ancora cardiologicamente viva.
Le sue pietre, le sue opere, il suo metallo, la sua ricerca, i suoi figli, il suo essere si alimentano dai sassi e dalle foglie di vite che si vedono e vivono qua attorno.
Tanto devota alla conoscenza, alla cultura e all’arte, tanto triste il Popolo di San Bartolomeo a Vertine in questo giorno.