Il mio ricordo di Gianfranco Soldera
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di Silvana Biasutti
MONTALCINO. Sono passati più di quarant’anni da quei giorni e la notizia della morte di Gianfranco Soldera oggi mi arriva come una fucilata per annunciarmi che quel tempo ė finito. E lui ne ha calato il sipario nel modo più emblematico che fosse dato pensare.
Allora ci si incontrava a pranzo da Oreno, a Sant’Angelo in Colle che per noi era la destinazione vera – lui con la moglie e ìo con i miei tre bambini – venivamo entrambi da nord, lui con quelli che parevano suoi estremismi, in vigna, e la moglie forsennata come lui a lavorare a un roseto immaginifico che pare uscito dalle pagine di Italo Calvino; io invece per il restauro faticoso di un podere e per vedere il paesaggio formidabile di quel cantuccio di Toscana che usciva da anni di povertà rivelandosi un luogo incantato. La nostra era una semplice conoscenza, ma poi ho avuto modo di capire che quell’incanto ci accomunava, come – molti anni dopo – una tensione comune l’abbiamo vissuta per il timore che il mondo degli affari entrasse a gamba tesa a turbare un’idea di Montalcino quale terra speciale. Un’idea che prendeva corpo e sostanza facendo sī che il mondo la riconoscesse.
No, l’addio di Soldera alla sua vigna non ė la solita notizia di uno che ha lasciato la terra. È la fine di Montalcino come l’avevo conosciuto in quegli anni. È l’uscita di un ‘maestro’ che non aveva remore o false modestie nel considerarsi il migliore. Ma non erano solo parole. E non era un modo di apparire: era il suo modo di ringraziare la terra e riconoscerla come fattrice, insieme al proprio lavoro, di vini che sono entrati nell’immaginario e ci sono rimasti saldamente. A dispetto di amici e nemici, veri o tentennanti. Nel suo bicchiere invece c’è sempre quel paesaggio che alcuni riescono a vedere.