CHIANTI. (a.p.) A proposito dei due Chianti, ovvero quello vero e quello inventato, vengono in mente le recenti parole di Roberto Barzanti (ex sindaco di Siena, ex parlamentare europeo, ex assessore regionale e attualmente presidente della Libreria e dell’Accademia degli Intronati) che ai microfoni di “Controradio” afferma che la volontà (del Consorzio del Chianti Classico) di unificare il territorio di produzione (di suddetto vino), dandogli il potere immediato di esser tutto Chianti per concorrere a diventare “Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco”, rischia di svilire l’importanza di tale vanto.
“Se tutto è Unesco, niente è Unesco” dice Barzanti e a un territorio così mal concepito dal punto di vista storico e geografico viene d’impatto da aggiungere un’altra considerazione: “Se tutto è Chianti, niente è Chianti”.
Un territorio disomogeneo che parte da Ponte a Bozzone e finisce quasi alle porte di Firenze, a Strada (non nel Chianti) dove dentro ci sono i luoghi dell’abbandono delle campagne dalla mezzadria (Radda, Gaiole Castellina) verso quei luoghi che venivano definiti come forestieri (Barberino, Tavarnelle ecc.) da Gino Tatini (sindaco di Castellina nel 1963), che davanti alle telecamere della RAI, snocciolava i tristi numeri di quanti se ne erano andati dal paese.
Luogo di castelli, vigne, boschi, più o meno immutati, (anche se patinati dagli anni ’80) il Chianti, luoghi mescolati ai capannoni del boom economico che hanno cambiato di netto la fisionomia della Val d’Elsa e della Val di Pesa dal punto di vista abitativo e dal punto di vista demografico.
La commissione dell’Unesco, per valutare i territori, di fronte alla zona industriale di Tavarnelle, Sambuca, Barberino, Poggibonsi, troverà di fronte a sé una lunga linea di tessuto verde a parare i capanni prefabbricati realizzati nel corso degli anni.
Forse il punto non è questo, non conta l’Unesco, conta il commercio del termine Chianti, l’ampliarlo, il renderlo marketing di tutto quello che, con il Chianti, non c’entra niente.