La fortunata docu-serie su San Patrignano, in onda su Netflix, è nata tra le sue mani. L'Ufficio Stampa del Comune di Gaiole, l'ha intervistata
GAIOLE IN CHIANTI. Vivono tra Londra e Gaiole in Chianti Cosima Spender e suo marito Valerio Bonelli, rispettivamente regista e montatore nonché supervisore al montaggio di “Sanpa- Luci e Tenebre di San Patrignano”, la fortunata docu-serie in onda su Netflix, che ha riacceso i riflettori sul passato di luci e ombre della comunità di recupero per tossicodipendenti, fondata da Vincenzo Muccioli nel 1978 a Coriano, in provincia di Rimini. Sanpa è il risultato di 180 ore di interviste abilmente intrecciate ai video di repertorio, recuperati da 51 differenti archivi. Una sfida importante per chi ha curato la regia e il montaggio, come racconta la stessa Cosima Spender, intervistata dall’ufficio stampa del Comune di Gaiole in Chianti.
- Tutti parlano di Sanpa in queste ore, esprimendo pareri differenti, ma se ne parla: politici, stampa, opinionisti. Ed è tra i titoli più visti sulla piattaforma di streaming in Italia. Da cosa nasce questa curiosità? Perché la docu-serie sta facendo tanto rumore? Ci sono forse ancora dei tabù in Italia nell’affrontare certi argomenti in modo libero, raccontando anche la parte più “scomoda” delle storie?
- Probabilmente sì, questa vicenda divise l’Italia all’epoca, tra chi apprezzava l’enorme sforzo di Muccioli, per salvare dalla tossicodipendenza le migliaia di ragazzi che gli venivano affidati – uomini e donne che non avevano speranza di vita fuori da San Patrignano – e chi invece contestava i suoi metodi coercitivi utilizzati nei casi più estremi per trattenere questi giovani lontano dalle droghe. Poi di questa storia non ne hanno più parlato. Oggi che l’abbiamo fatta riaffiorare, continua a dividere. Ma la gente è curiosa, vuole sapere, per farsi un’opinione. Per alcuni Sanpa è stata l’occasione di rivedere in tv un periodo storico che hanno vissuto, per altri l’opportunità di raccontare ai propri figli uno spaccato degli anni ottanta, caratterizzato dall’esplosione del consumo di eroina. Del resto la tossicodipendenza è ancora un tema di grande attualità. Per tutte queste ragioni “Sanpa Luci e Tenebre di san Patrignano” ha fatto presa sulle persone. Inoltre, essendo uscito il 30 dicembre quando le famiglie erano riunite in casa, è stata un’esperienza collettiva davvero interessante.
- D. La forza di questa docu-serie, sta nella scelta di affidare la narrazione ai testimoni, senza esprimere giudizi precondizionanti e stimolando nel pubblico una riflessione personale, sul confine sottile tra il bene e il male, che mette in gioco l’etica e la personale scala dei valori. Cosa significa curare la regia di un progetto così complesso? Come si è approcciata a questo lavoro?
- Abbiamo trattato il pubblico “da adulto”, non suggerendo cosa pensare, ma lasciando ad ognuno la possibilità di arrivare alle proprie conclusioni su un argomento, che i media all’epoca avevano ampiamente trattato, ma in modo parziale e netto, nello spazio di un trafiletto di giornale, o nei dieci minuti di un reportage, dove le posizioni erano necessariamente estreme: o bianco o nero. I tempi della serie tv sono molto diversi, ci hanno consentito di affrontare il soggetto in profondità e a tutto tondo, recuperando anche le sfumature. Sanpa ha richiesto un enorme lavoro di squadra: ho ricevuto un importante aiuto dagli autori (Gianluca Neri, Carlo Gabardini e Paolo Bernadelli) che hanno fatto ricerca e sono stati al mio fianco durante tutte le interviste. Dopo aver girato 5 settimane, in sala di montaggio abbiamo visionato 300 ore di video provenienti da 51 archivi diversi e 180 ore di nuovo girato. Tutto il materiale è stato organizzato per temi e in ordine cronologico. Stessa cosa per i personaggi. Nella serie non volevo raccontare solo i fatti, ma creare un viaggio emotivo attraverso le testimonianze, sullo stile dei documentari anglosassoni, che fanno parte della mia formazione di regista. La stessa scelta che feci per “Palio”, il docufilm sul Palio di Siena, che ho realizzato nel 2015. Sul montaggio di Sanpa sono intervenuti tre montatori sotto la supervisione mia e di mio marito Valerio Bonelli, che ha dato alla storia il ritmo giusto e un sapore particolare, ricreando l’atmosfera tipica di quegli anni. Valerio ha, infatti, una grande esperienza nel montaggio di film epici, avendo curato lavori come “L’ora più buia”, “Philomena” e il “Ragazzo che catturò il vento”.
- Durante le interviste qual è stata la testimonianza più toccante?
- Quella di Fabio Cantelli è stata incredibile, sia per la storia in sé, sia per la sua capacità di esprimere situazioni emotive molto complesse attraverso la padronanza del linguaggio. Ma devo dire che tutti i nostri testimoni erano desiderosi di raccontarsi e non si sono lasciati intimidire dalle 15 persone della crew, che sono entrate nelle loro case in assetto da cinema per le riprese. Prima di ogni intervista ci siamo preparati a fondo, rimanendo però sempre aperti all’inaspettato per cogliere le emozioni più autentiche.
- Dove è avvenuto il montaggio?
- Gran parte del montaggio, che è durato un annetto, è avvenuto a Londra, però gli ultimi due mesi da luglio ad agosto 2020 a Gaiole in Chianti, nello studio di mio padre, dove gentilmente ci ha lasciato lavorare. Ogni estate ci trasferiamo a Gaiole con tutta la famiglia, sorella, cugini e amici. I nostri figli andavano in giro per le campagne del Chianti ed io e mio marito rimanevamo chiusi a lavorare a ritmi serrati alla serie, indirizzando gli altri montatori con riunioni via skype.
D Quando ha scoperto la sua passione per la regia?
- All’università di Londra studiavo storia dell’arte ed etnografia e mi sono appassionata di documentari, perché mi permettevano di raccontare tradizioni e i costumi in mondi diversi dal mio. Dopo la laurea ho frequentato la National Film and Television School e mi sono specializzata in regia di documentari. Lì ho conosciuto mio marito che studiava montaggio. Lui era di Firenze e ci siamo avvicinati perché insieme potevamo ricordarci con piacere dei paesaggi toscani.
- D. Lei ha trascorso la sua infanzia a Gaiole in Chianti dove i suoi genitori – lo scrittore e artista Matthew Spender e la pittrice Maro Gorky – hanno scelto di trasferirsi negli anni sessanta, acquistando un casolare. Prosegue con i suoi figli il legame degli Spender con Gaiole? In un film cosa vorrebbe raccontare di questo territorio? Io sono nata in casa, a San Sano, frazione di Gaiole in Chianti, qui ho frequentato le scuole fino a 14 anni. Poi sono andata a studiare fuori e adesso vivo a Londra, ma ogni anno ritorno per lunghi periodi. Le colline del Chianti fanno parte dell’immaginario collettivo di tutti i membri della famiglia Spender, rappresentano le nostre radici e mi piacerebbe trasmettere questo legame anche ai miei figli. Se dovessi raccontare questo territorio in una pellicola ci sarebbero tante atmosfere da cui prendere spunto per una narrazione. Credo che ogni luogo sia pieno di possibili film e di possibili storie, basta trovare i personaggi giusti e raccontarlo nel modo giusto…e il Chianti ne ha davvero tanti di personaggi eccentrici.
Nella foto la regista Cosima Spender
Foto credit: Lelia Scarfiotti