Mentre la politica pensa alle amministrative, la decomposizione avanza
di Giovanni Elia
SIENA. In uno dei molti splendidi racconti di James Ballard, uno tra i maggiori scrittori anglosassoni del secolo scorso, la vita di un tranquillo paese viene sconvolta dalla misteriosa apparizione del cadavere di un gigante sulla spiaggia dell’abitato. La prima reazione degli abitanti è di stupore, meraviglia e fascinazione, ma col passare del tempo il corpo viene prima derubricato a dato di fatto, poi ignorato ed infine – mentre le spoglie stanno per disfarsi – mutilato senza ritegno, fino a che sulla spiaggia non rimangono che poche enormi ossa.
L’Università di Siena, all’inizio di questo 2011, è nella stessa situazione. A due anni dall’esplosione del caso mediatico del “buco” (ma qualche volenteroso urlava nel deserto parecchio tempo prima, nell’indifferenza generale) si deve purtroppo constatare che parecchi ancora non si rendono conto che quel gigante è tecnicamente già annegato – o meglio, è stato fatto annegare. Il combinato disposto di crisi economica, difficoltà del Monte dei Paschi e voragine finanziaria dell’Università potrebbe mettere in ginocchio un territorio che fino a qualche tempo fa sembrava inaffondabile, e per evitare che un’istituzione quasi millenaria non si risollevi mai più da questo crimine è essenziale guardare ai dati di fatto con un occhio realistico – e impietoso, dato che i medici pietosi fanno le piaghe purulente.
Punto primo: qual è il core business dell’Università di Siena? Formazione e ricerca, viene da rispondere: l’ateneo si pone sul mercato della formazione superiore offrendo curricula e competenze pari o superiori agli altri per attirare studenti da tutta Italia, e così facendo si garantisce un buon afflusso di matricole. Se questo era vero negli anni belli deve esserlo doppiamente in tempi di crisi economica globale e di disoccupazione giovanile a livelli stellari; ed è bene ricordare che molti di questi giovani hanno un titolo universitario non spendibile sul mercato del lavoro, o per insufficiente preparazione o per mancanza di domanda per quelle figure professionali. Tutto questo implica che nei prossimi anni le matricole dell’Unisi verranno qui a cercare formazione, formazione ed ancora formazione, non certo concertini gratuiti e amenità del genere, con le quali si è forse cercato di tappare le falle di un sistema che già faceva acqua di suo. A cinque, dieci o trent’anni dalla laurea queste persone non si ricorderanno certo con affetto di come si andava bene su Facebook dal wifi d’ateneo: si ricorderanno invece, e bene, di come il loro corso universitario li ha saputi preparare (o meno) alla competizione nel mondo globalizzato.
Punto secondo: è sostenibile mantenere l’organico – a tutti i livelli, beninteso – ai livelli pre-crisi e pre-buco? Evidentemente, per un ateneo a cui attualmente non basta il Fondo di Finanziamento Ordinario per pagare le sole spese correnti, no. E’ noto che l’Unisi ha un rapporto assolutamente anomalo fra studenti e personale tecnico-amministrativo, del tutto fuori linea rispetto alla media nazionale e parecchio lontano dalle medie dei (pochi) atenei italiani che reggono il confronto con i loro pari esteri. Vista la situazione economica negarlo è inutile, ed in quest’ottica dispiace vedere come la vivacità senza precedenti della blogosfera senese si basi un po’ troppo sulla difesa “senza se e senza ma” dei diritti acquisiti. Si tratta della stessa logica, è bene ricordarlo, che a partire da trent’anni fa ha consentito a migliaia di persone di andare in pensione ad età assolutamente scandalose, e pazienza se questo ha voluto dire piazzare sul groppone dei giovani d’oggi – e sui loro figli – un debito pubblico che impedisce a questo paese ogni prospettiva strategica. Se è vero che il pesce puzza dalla testa, insomma, non è che il corpo profumi di salmastro: e pretendere che dopo anni di vacche grasse si possa rimettere l’Unisi in piedi senza intaccare i diritti di coloro che vivacchiano scaldando sedie – magari comodamente riparati dietro una tessera sindacale – è assolutamente irreale. Questo anche nell’interesse dei tanti che invece davvero si fanno un mazzo così per tirare la carretta e garantire che il sistema universitario senese funzioni, dato che a quel punto un po’ di meritocrazia garantirebbe a coloro mobilità verso l’alto, riconoscimenti e soddisfazioni personali e professionali. Se questo discorso vale per le torme di parenti e cubiste intruppate a Roma in Atac e Ama, in definitiva, com’è possibile pretendere che non debba valere anche per l’Università degli Studi di Siena?
Punto terzo: la politica, in queste settimane che precedono le elezioni amministrative, sembra aver deciso di rimandare le discussioni franche quanto scomode in tema di risanamento dell’ateneo, dopo mesi e mesi di benaltrismi prima e di dichiarazioni roboanti ma inconcludenti poi. A pensar male si potrebbe immaginare che i possibili corresponsabili del dissesto abbiano voluto far passare la piena per poi agire senza impedimenti a valle delle elezioni, e che gli altri non abbiano troppa voglia di irritare un bacino di voti che può sempre tornar comodo; è invece proprio ora che una robusta dose di coraggio sarebbe un toccasana per tutti, visto che mali estremi richiedono rimedi estremi e che l’attendismo è un lusso che l’istituzione non può più davvero permettersi.
E’ necessaria insomma una visione impavida e di lungo periodo, ed in attesa che la magistratura faccia il suo dovere sarebbe cosa gradita vedere che anche il sistema immunitario e di autogoverno dell’Università è in grado di operare seriamente, ed al di là degli interessi quotidiani di bottega, per limitare un corporativismo che – a tutti i livelli – ha letteralmente fatto dell’Università di Siena carne di porco. Anzi, di gigante.