La rivista Geology ha pubblicato un articolo sullo studio del cratere di un meteorite
SIENA. La rivista scientifica Geology ha dedicato la copertina del numero di febbraio alla ricerca sul “Kamil Crater” svolta dall’Università di Siena. Dopo la pubblicazione su Science lo scorso agosto, un’altra prestigiosa rivista internazionale si occupa del cratere di 45 metri di diametro scoperto nel Sahara egiziano, cratere che permette di conoscere e definire lo scenario catastrofico che piccoli meteoriti – si parla di oggetti di circa un metro cubo – provocano cadendo sulla crosta terrestre, evento che si produce ogni 10 – 100 anni.
Gli autori senesi dell’articolo pubblicato su Geology sono Luigi Folco, Antonio Zeoli, Carole Cordier e Matthias van Ginneken, ricercatori presso la sede di Siena del Museo Nazionale dell’Antartide. Insieme a loro svolgono la ricerca Massimo D’Orazio dell’Università di Pisa, Mario di Martino dell’Istituto Nazionale d’Astrofisica di Torino, Iacopo Nicolosi e Stefano Urbini dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia di Roma.
La scoperta del cratere, un modello unico al mondo, ha fornito i dati per studiare lo scenario catastrofico che viene prodotto dalla caduta di piccoli meteoriti, i più frequenti ad arrivare sulla crosta terrestre.
“I crateri formati da meteoriti di piccole dimensioni – ha spiegato Luigi Folco – sono molto rari ed erosi facilmente, e le informazioni che gli scienziati possono trarne sono spesso frammentarie e incomplete. Invece il cratere che stiamo studiando in Egitto è in perfette condizioni di preservazione e ci sta fornendo dati di eccezionale importanza”.
“Si è potuto osservare che meteoriti metalliche di massa di alcune decine di tonnellate possono penetrare l’atmosfera senza frammentarsi – hanno detto i ricercatori dell’Università di Siena – creando un cratere di decine di metri di diametro, esplodendo in migliaia di frammenti, lanciando detriti di dimensioni decimetriche fino ad alcuni chilometri di distanza, e producendo gocce di roccia fusa che formano una nuvola ardente che si espande a velocità supersoniche.”
La meteorite che ha causato il Kamil Crater è stata classificata e il suo nome ufficiale è Gebel Kamil. Si tratta di una meteorite con caratteristiche geochimiche uniche, che alimenta non solo il primato della scoperta, ma anche l’interesse della comunità scientifica internazionale. La composizione particolarmente ricca in Nichel e la sua omogeneità strutturale interna fa sì che “Gebel Kamil” non presenti la classica frammentazione planare tipica di molte meteoriti metalliche. I suoi frammenti sono invece piuttosto assimilabili a “schegge” di ferro dalle forme contorte e irregolari. Questa sua particolare proprietà meccanica influenza fortemente il processo di impatto, e deve essere tenuta in considerazione nello sviluppo dei modelli di formazione dei crateri. Degli 800 chili di frammenti di meteorite raccolti, 20 chili sono conservati ed esposti al pubblico presso Museo Nazionale dell’Antartide di Siena, 5 chili presso il Museo di Storia Naturale dell’Università di Pisa e i rimanenti presso il Museo Geologico del Cairo.
Nell’articolo gli autori indicano anche una possibile età del cratere, che non può essere più vecchio di 5000 anni. Infatti il ritrovamento di frammenti di roccia espulsa durante la formazione del cratere su dei camminamenti di origine preistorica nonché la totale assenza di manufatti ferrosi nei numerosi siti archeologici delle immediate vicinanze, indicano che la formazione deve essere successiva all’occupazione umana della zona. Studi climatici indicano che 5000 anni fa si instaurarono nella zona condizioni così aride da renderla invivibile. Ed è stato solo dopo che un bolide ferroso residuo della formazione del sistema solare ha segnato in maniera così spettacolare le rocce del deserto.
Gli autori senesi dell’articolo pubblicato su Geology sono Luigi Folco, Antonio Zeoli, Carole Cordier e Matthias van Ginneken, ricercatori presso la sede di Siena del Museo Nazionale dell’Antartide. Insieme a loro svolgono la ricerca Massimo D’Orazio dell’Università di Pisa, Mario di Martino dell’Istituto Nazionale d’Astrofisica di Torino, Iacopo Nicolosi e Stefano Urbini dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia di Roma.
La scoperta del cratere, un modello unico al mondo, ha fornito i dati per studiare lo scenario catastrofico che viene prodotto dalla caduta di piccoli meteoriti, i più frequenti ad arrivare sulla crosta terrestre.
“I crateri formati da meteoriti di piccole dimensioni – ha spiegato Luigi Folco – sono molto rari ed erosi facilmente, e le informazioni che gli scienziati possono trarne sono spesso frammentarie e incomplete. Invece il cratere che stiamo studiando in Egitto è in perfette condizioni di preservazione e ci sta fornendo dati di eccezionale importanza”.
“Si è potuto osservare che meteoriti metalliche di massa di alcune decine di tonnellate possono penetrare l’atmosfera senza frammentarsi – hanno detto i ricercatori dell’Università di Siena – creando un cratere di decine di metri di diametro, esplodendo in migliaia di frammenti, lanciando detriti di dimensioni decimetriche fino ad alcuni chilometri di distanza, e producendo gocce di roccia fusa che formano una nuvola ardente che si espande a velocità supersoniche.”
La meteorite che ha causato il Kamil Crater è stata classificata e il suo nome ufficiale è Gebel Kamil. Si tratta di una meteorite con caratteristiche geochimiche uniche, che alimenta non solo il primato della scoperta, ma anche l’interesse della comunità scientifica internazionale. La composizione particolarmente ricca in Nichel e la sua omogeneità strutturale interna fa sì che “Gebel Kamil” non presenti la classica frammentazione planare tipica di molte meteoriti metalliche. I suoi frammenti sono invece piuttosto assimilabili a “schegge” di ferro dalle forme contorte e irregolari. Questa sua particolare proprietà meccanica influenza fortemente il processo di impatto, e deve essere tenuta in considerazione nello sviluppo dei modelli di formazione dei crateri. Degli 800 chili di frammenti di meteorite raccolti, 20 chili sono conservati ed esposti al pubblico presso Museo Nazionale dell’Antartide di Siena, 5 chili presso il Museo di Storia Naturale dell’Università di Pisa e i rimanenti presso il Museo Geologico del Cairo.
Nell’articolo gli autori indicano anche una possibile età del cratere, che non può essere più vecchio di 5000 anni. Infatti il ritrovamento di frammenti di roccia espulsa durante la formazione del cratere su dei camminamenti di origine preistorica nonché la totale assenza di manufatti ferrosi nei numerosi siti archeologici delle immediate vicinanze, indicano che la formazione deve essere successiva all’occupazione umana della zona. Studi climatici indicano che 5000 anni fa si instaurarono nella zona condizioni così aride da renderla invivibile. Ed è stato solo dopo che un bolide ferroso residuo della formazione del sistema solare ha segnato in maniera così spettacolare le rocce del deserto.