Intervista a Marco Norcini, candidato come indipendente per il Regionale
di Raffaella Zelia Ruscitto
SIENA. Come cambia la professione, la crisi che ha lasciato a spasso molti colleghi e le nuove sfide cui va incontro il mestiere del giornalista. Domani (26 maggio), oltre che per le amministrative si vota anche per il Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti della Toscana e dell’Ordine nazionale. Marco Norcini è uno dei colleghi indipendenti che si presenta per il Consiglio Regionale.
Da collega a collega, perché hai deciso di candidarti?
“Credo che debbano essere impiegate nuove energie anche all’interno del consiglio, per questo io e il mio collega Marco Ceccarini, dell’Agenzia di Stampa della Regione Toscana, abbiamo deciso di presentarci come indipendenti. Per prima cosa, perché vogliamo che i nostri colleghi credano in noi, nella nostra voglia di contribuire a cambiare le cose per questa professione che si trova nel momento più delicato della sua storia”.
A cosa ti riferisci?
“Intanto al fatto che la crisi ha mandato a casa una quantità innumerevole di colleghi. In molti casi questo fenomeno della disoccupazione è stato causato da operazioni editoriali spregiudicate e dalla troppa debolezza e mancanza di coesione nella categoria. Ritengo ingiusto che ogni volta che si presenta un problema, per esempio, si punti il dito sui giornalisti, come se fossero loro «il male dei mali». Non è così, e questo la gente lo sa, come lo sanno molti dei nostri eccellenti professionisti che non ci stanno a farsi prendere in giro da campagne diffamatorie e strumentalizzazioni politiche su come si svolge il nostro lavoro”.
Perché ritieni che la nostra categoria sia troppo divisa?
“Basta guardarsi attorno. In parlamento ci sono decine e decine di giornalisti diventati anche parlamentari, eppure le leggi che sono uscite fino ad oggi non hanno certo giovato alla nostra professione. Ancora si discute di equo compenso e della condizione dei liberi professionisti, discussioni che vanno avanti da una legislatura. Basta prendere ad esempio gli altri albi professionali, trovi che gli avvocati, i notai, i medici, siano attraversati dalle stesse nostre divisioni?
Anche il tema dei contributi pubblici dell’editoria è un punto caldo per i prossimi anni. Tuttavia questo non ha messo in salvo molti colleghi da spegiudicate operazioni editoriali volute proprio dagli editori, che hanno travisato il fatto che il giornale è un’azienda e che in molti casi ricava i suoi profitti, non dalla pubblicità, ma dalle provvidenze. Così come noi giornalisti ci dobbiamo reinventare il mestiere adesso, anche gli editori dovrebbero pensare a reinventare le loro aziende editoriali in modo che funzionino come tali senza creare disoccupazione e scompensi sociali”.
Ti riferisci solo alla carta stampata?
“Ci sono anche le televisioni, le radio e tutto un mondo che sta nascendo e prendendo forma come l’editoria on line. Questo è il futuro, ma è una realtà troppo frammentata per avere un suo peso determinate. Per gli editori ed i giornalisti online, figure che in molti casi coincidono, serve maggiore unità, più formazione e comunicazione, in modo che possano far valere il loro peso. Questo potrebbe servire a spostare molto del mercato della pubblictà nell’online e farlo valere di più. insomma serve più collaborazione”.
Un passaggio difficile da gestire…
“Sì, perché come tutti i passaggi comporta dei rischi, dei pericoli di deriva che possono far emergere le contraddizioni di questa professione rendondo poi impossibile un cambio di rotta. Serve guardare avanti, con gli occhi al passato, riprendere lo spirito di collaborazione tra colleghi che sancisce la stessa legge istitutiva dell’Ordine. Questo in particolare non solo per chi si troverà a fare il cronista o il deskista in una testata, ma anche per coloro che si affacciano alla libera professione e alla formazione dei colleghi. Solo lo spirito di collaborazione tra colleghi potrà stabilire se il cambiamento ci porterà a diventare dei veri freelance oppure dei bottegai. E una particolare attenzione va rivolta anche a quei colleghi che lavorano per i giornali e sono precari pagati a pezzo, spesso ricoprendo settori rischiosi come la cronaca nera e a volte la giudiziaria, sempre a rischio di qualche causa civile o penale pur avendo scritto la verità”.
Ma l’Ordine in questo senso non ha presentato una convenzione con un’assicurazione per il rischio civile?
“Sì, ma è troppo onerosa anche per chi ha un lauto stipendio. La prima fascia di reddito presa in considerazione va da zero a 70mila euro. E per chi sbarca il lunario a giornata, magari con 5 euro a pezzo non è certo proponibile. Una volta si diceva che i giornali di fatto li fanno i collaboratori, che sono sul territorio e sono i meno pagati. Di fatto rischiano anche di più”.
L’Ordine però si è adeguato anche con i corsi di formazione…
“Dal 2014 saranno obbligatori per tutti gli iscritti, questo rappresenta un’opportunità anche per molti colleghi che saranno chiamati a formare gli altri, per loro potrebbe diventare un vero e proprio lavoro svolto anche con la collaborazione degli enti universitari e locali”.
Per chiudere cos’è cambiato in questi anni per mettere in crisi l’editoria?
“L’editoria languiva anche prima della crisi economica, quest’ultima ha dato il colpo di grazia. Sono stati fatti due errori di fondo. Il primo che sono mancati i lettori anche per una diseducazione alla lettura ,non si è riusciti a far percepire il prodotto giornale come una necessità, alla stessa stregua del telefonino. L’errore è stato commesso nelle scuole. In molti hanno cercato di spiegare ai ragazzi il vademecum del piccolo giornalista, ma non era quello che serviva, piuttosto era necessario accompagnare i ragazzi a una lettura critica del giornale, la scuola oltre a insegnare doveva prestare un occhio all’attualità. Non serve a niente che un giornalista in classe insegni come si fa un giornale, se prima non si crea nell’alunno l’appetito di informarsi. Quando l’editoria ha cominciato ad andare in crisi molti colleghi hanno pensato che le scuole di gornalismo, che sfornavano migliaia di penne magiche all’anno fosse la soluzione al problema. In realtà era la soluzione al loro problema. Le scuole erano costose e permettevano lauti guadagni agli insegnanti, ma il mercato del lavoro si intasava sempre più di una maggiore richiesta. Questo ha fatto la felicità degli editori, che via via hanno assottigliato i contratti di lavoro, e li hanno dequalifati in nome del maggior profitto. I risultati li stiamo pagando oggi; tutti quanti. Per questo lavorare sull’educazione e lavorare bene è un investimento per le generazioni, un’operazione di marketing culturale che arricchirà i i nostri figli”.