Ovvero: quando la diversità non viene perdonata. A nessuna latitudine
di Mauro Aurigi
SIENA. I miei due stupendi nipotini caffè-e-latte, Omar e Mariam, hanno rispettivamente 13 e 9 anni. Frequentano con successo la scuola in Italia, ma non tutto è filato liscio per colpa di quel bellissimo colore ambrato della loro pelle e per quei capelli così ricciuti e ribelli, specie quelli di Mariam. Tra ragazzi succede. Ai miei tempi bastava portare le lenti o avere i capelli rossi per essere oggetto di dileggio. Per cui immagino che fossero ambedue animati, magari inconsapevolmente, anche da uno speranzoso sentimento di rivincita quando, insieme alla mamma, sono partiti per Kemebèr, un grosso villaggio agricolo dell’interno del Senegal, per conoscere la nonna paterna Astù: finalmente la loro pelle “chiara” sarebbe stata universalmente apprezzata. Ma le cose non sono andate così.
Non so cosa sia esattamente un villaggio agricolo del Senegal, ma posso immaginarmelo con una buona approssimazione: poco lavoro faticoso e mal retribuito e tante rimesse dai giovani emigrati in Europa e quindi una notevole quantità di sfaccendati in giro per le strade. E’ a questo contesto che devo attribuire ciò che succedeva con una certa frequenza al terzetto quando si muoveva per le strade del villaggio e che la piccola Mariam, tra il deluso e l’arrabbiato, mi ha riferito al telefono:
“Nonno, lo sai che per la strada i giovani ci gridano dietro tubàb?”
“Davvero? E cosa vuol dire tubàb?”
“Vuol dire bianchi, ma detto come per offendere”
“E te rispondigli tumàm!”. Mi è sembrata una risposta graffiante, parecchio toscana, anzi parecchio ondaiola, così aggiungo: “Loro non capiranno, ma te così ti sentirai parecchio Piccola Delfina”
“No” è stata la risposta “Quando torno a casa e vedo uno di loro gli dico dietro negro! Così mi rifò”.
Femmina terribile.