di Fabrizio Pinzuti
AMIATA. “Riteniamo quindi anomalo che il nuovo impianto realizzato a Bagnore da 40 MW, inaugurato a fine 2014, non rispetti i limiti previsti dalla stessa Regione nella DGR 344, dato che la tecnologia utilizzata (flash + abbattitore) non è quanto di più tecnologicamente avanzato disponibile oggi dal punto di vista ambientale, ma probabilmente solo la scelta più conveniente dal punto di vista economico-finanziario. È evidente che esiste una competizione tra i tempi geologici naturali (che porterebbero comunque in tempi lunghi i gas contenuti nei fluidi geotermici in contatto con l’atmosfera) e i tempi rapidi dello sviluppo del geotermico ai fini di produzione elettrica. Questo conflitto è la causa delle pressioni sull’ambiente e questo può essere minimizzato solo con lo sviluppo di tecnologie più adeguate, come i sistemi a ciclo binario con reiniezione totale dei fluidi, senza rinunciare all’utilizzo di una risorsa naturale rinnovabile. Anche nel nuovo Work Program 2016-2017 del Programma HORIZON 2020 della UE questi elementi sono stati apprezzati dalla Commissione Europea e sta per uscire una Call (LCE21d-Low Carbon Energy) che si pone l’obiettivo di finanziare ricerche orientate a rimuovere le preoccupazioni ambientali e sociali della produzione geotermoelettrica, sviluppando soluzioni tecnologiche basate sulla reiniezione dei gas incondensabili. Questo è l’unico modo per superare il “collo di bottiglia” che ha fin’ora rallentato, se non impedito, lo sviluppo di una fonte rinnovabile preziosa per la collettività e l’economia nazionale. Sarebbe anche auspicabile pensare a soluzioni per riconvertire le centrali esistenti con nuovi sistemi più puliti, che garantiscano una maggior sostenibilità della risorsa. In ogni caso, il profitto finanziario non può essere il principale criterio nel processo decisionale per lo sviluppo di centrali geotermiche nell’area dell’Amiata e nel resto del Paese”.
Sono queste le conclusioni dello studio, apparso nella rivista QualEnergia di giugno/luglio 2015, pagg. 96-99, “Geotermia D’Impatto, la geotermia italiana oscilla tra ‘free carbon’ e ‘carbon free’, ma è tecnicamente possibile diminuire l’impatto sull’ambiente” di Riccardo Basosi, dell’Università di Siena, e Mirko Bravi, ricercatore “freelance”. L’articolo, di cui possiamo pubblicare solo uno stralcio, merita di essere letto nella sua integralità e completezza, andando anche a rileggere il precedente lavoro degli stessi due studiosi pubblicato sul Journal of Cleaner Production nel 2014 e scaricabile dal sito Arpat (tiny.cc/BraviBasosi), ricerca che “si concentra sull’analisi delle emissioni geotermiche nell’area del Monte Amiata perché tale area presenta criticità maggiori rispetto alle altre aree geotermiche toscane. Infatti, a fronte di una produzione di energia elettrica da fonte geotermica nel 2010 pari all’11,8% di quella totale regionale, le emissioni in atmosfera amiatine rappresentano una quota ben più rilevante per Hg e NH3 (As 13,7%, CO2 27,7%, H2S 16,8%, Hg 46,3%, NH3 43,3% delle emissione toscane). Anche Arpat nella delibera 344 scrive che ‘i fattori di emissione più alti per la quasi totalità degli inquinanti si registrano nell’area geotermica dell’Amiata’”; in conclusione le centrali geotermiche dell’Amiata emettono in atmosfera gas climalteranti e acidificanti 4,4 volte le centrali a carbone di pari potenza.
Lo studio più recente non è solo un’ulteriore denuncia del paradosso dell’esborso, tramite l’addizionale nelle bollette dell’energia elettrica, da parte dei consumatori di contributi non dovuti che dovrebbero per legge andare ai produttori di energia pulita da fonti rinnovabili, non a chi produce elettricità inquinando più delle centrali a carbone, ma, proprio per questo, anche una riprova che i danni alla collettività non si misurano solo in euro. I due ricercatori aggiornano le analisi sul potenziale di tossicità per l’uomo delle centrali geotermiche amiatine, mostrando che le emissioni di ammoniaca di questi impianti contribuiscono in maniera rilevante alla formazione di particolato fine PM10 e PM2,5 di origine secondaria. Senza mezzi termini ribadiscono quanto emerso in altre occasioni – come nel convegno di Firenze del 15 luglio sulla buona geotermia o nel Festival Ecofuturo (meeting sulle energie rinnovabili e le best practices in ambito energetico) svoltosi ad Alcatraz (Perugia) la prima settimana di settembre – che cioè la tecnologia “flash” delle centrali amiatine ad alta entalpia non è la più tecnologicamente avanzata, come sostenuto dall’ENEL talvolta senza rimandi a lavori di alto profilo scientifico. La ricerca insiste anche sull’esigenza di non rinunciare alla geotermia ma di adottare le molteplici tecnologie più nuove come i BHE (Borehole Heat Exchanger), che sfruttano direttamente il calore senza estrazione di fluidi né gas – proposta avanzata dallo scienziato vulcanologo e geologo Andrea Borgia – o come il nuovo scambiatore, che avrà nei prossimi mesi una installazione pilota in una ex miniera di Abbadia San Salvatore, realizzato dal dottor Giuliano Gabbani dell’Università di Firenze, in grado di andare a prelevare il contenuto entalpico della risorsa geotermica direttamente nel sottosuolo, senza mobilitarla.