Ma anche l'abbandono e l'incuria danno una bella mano
di Fabrizio Pinzuti
PIANCASTAGNAIO. Tre incendi in quattordici giorni, a una settimana l’uno dall’altro, in zone diverse (Le Strette, Casa Frassanti, San Martino), ma tutti in prossimità del paese, l’ultimo non lontano dalle abitazioni e da una delle zone artigianali del paese. Piuttosto difficile pensare al caso, all’imprudenza di qualche sprovveduto che ha lasciato inavvertitamente un fuoco acceso o che ha buttato a terra il mozzicone di sigaretta. Sicuramente il fuoco ha trovato facile esca nella vegetazione inaridita dalla siccità ma anche il fatto che il secondo si sia sviluppato subito dopo altri due incendi (uno a Radicofani, l’altro a Castell’Azzara), come a voler impegnare i mezzi di soccorso su più fronti e dare alle fiamme maggiore possibilità di propagarsi, lascia supporre un dolo pianificato, se non premeditato.
Non è qui il caso e il luogo, né spetta comunque a noi, l’accertamento di responsabilità, Si vuol solo notare che, oltre la lucida follia o il freddo calcolo di chi pensa di trarre vantaggio dalla situazione, una mano agli incendi l’ha data anche la situazione di abbandono in cui versano boschi e campagne e, più in generale, tutto il territorio. L’agricoltura, anche come silvicoltura, in montagna non è mai stata capace di sostenersi autonomamente, di dare redditi stabili e decorosi e ha dovuto spesso essere sostenuta con provvedimenti vari. Orzo, segale, castagne, funghi e frutti di bosco possono aver fornito tutt’al più proventi integrativi. Il resto lo hanno fatto l’inurbamento e lo spopolamento, la dismissione dell’attività mineraria, solo in parte e in qualche luogo compensata da attività artigianali e la stessa miniera ha favorito, più che gli alberi da frutto, il bosco ceduo, da cui ricavare legname per le armature delle gallerie.
Sempre più radi si sono fatti i provvedimenti a sostegno dell’economia e dell’agricoltura di montagna, e sempre minori sini stati i servizi e le infrastrutture di cui possono fruire gli abitanti delle zone montane. Il colpo di grazia lo ha inferto la logica – che poi logica non è – del profitto, incapace di comprendere il valore di un investimento che non si traduca in liquidità, più o meno immediata. Difesa e assetto del territorio, sistemazione idraulica e forestale sono termini ignoti. E poi giù lacrime di coccodrillo quando, con la tropicalizzazione del clima, basta un temporale, con l’acqua che scivola sul terreno impermeabile e non viene più assorbita dalla terra lavorata, per provocare alluvioni, frane, smottamenti e danni. Si ripaga in maniera esponenziale quello che non si è speso a difesa del territorio.
I bacini idrografici, considerati come sistemi unitari e ambiti ottimali per le azioni di difesa del suolo e del sottosuolo, il risanamento delle acque, la fruizione e la gestione del patrimonio idrico e la tutela degli aspetti ambientali ad essi connessi, indipendentemente dalle suddivisioni amministrative e pensati come “l’unità fisica inscindibile” su cui operare con azioni finalizzate alla tutela, difesa e valorizzazione delle risorse, sono ancora lontani dai presupposti della commissione De Marchi, dal nome del presidente, che già nel 1966 aveva individuato i presupposti per una visione più ampia ed integrata dei problemi dell’assetto del territorio a scala di bacino: Sono ancora da attuare molti degli aspetti della legge 183/89, istitutiva dei bacini idrografici.